Violenza di genere, la divulgatrice Fonte: «Così do voce a tutte le sopravvissute. È ora di educare al consenso i giovani maschi» – L’intervista
Ne uccide più la lingua. Ne è certa Valeria Fonte, classe 1998, divulgatrice femminista specializzata in Italianistica, conosciuta sui social per il suo attivismo contro il linguaggio misogino e le narrazioni tossiche. È appena trascorsa un’estate dominata da numerosi fatti di cronaca che hanno visto al centro stupri, molestie e femminicidi. Solo la punta dell’iceberg di un problema più profondo le cui trame sono da ricercare nella struttura della società e su cui, secondo Valeria Fonte, bisogna iniziare a intervenire con l’istruzione delle scuole, a partire da quelle dei più piccoli. «Educare al consenso»: è questa la grande sfida che la società contemporanea deve saper affrontare.
Iniziare (con le parole giuste) dai più piccoli
«Gli strumenti che abbiamo oggi non sono adeguati. Innanzitutto perché si pensa erroneamente che parlare di educazione sessuale a un bambino di tre anni sia precoce», commenta la divulgatrice, intervenuta al Festival di Open a Parma. «Non c’è nulla di più sbagliato. È proprio a tre anni che un bimbo inizia a esplorare il suo corpo e quelli altrui», aggiunge. E se c’è un aspetto in particolare su cui non intende dimostrare incertezze è quello del linguaggio. «È a tre anni che dobbiamo insegnare la parola pene o vulva», afferma Fonte. «Smettiamola – chiosa – di utilizzare espedienti come “fiorellino”, “elefantino” o cose simili». Chiamare le cose con il loro nome è una battaglia prioritaria per la scrittrice che – così come approfondisce nel suo libro Ne uccide più la lingua. Smontare e contestare la discriminazione di genere che passa per le parole (De Agostini, 2022) – ci tiene a ribadire un concetto tanto dibattuto quanto sottovalutato: «Le parole costruiscono la realtà che abitiamo».
«Lotto per ridare voce e spazio alle survivor come me»
«Abbiamo un grandissimo problema di educazione», rileva Fonte, secondo la quale si tratta di una questione che non riguarda solo i più piccoli, ma anche i giovani. Soprattutto maschi. «La gran parte di loro scambia il consenso per quel fatidico “No”, ma – ci tiene a sottolineare – non sempre possiamo dire di “No”. Esiste, però, il linguaggio del corpo, come le mani o lo sguardo rigidi, o una voce che non esce». La stessa Fonte ha un vissuto di violenza personale dopo aver subito una condivisione non consensuale di materiale sessualmente esplicito. Oggi si definisce survivor e nel suo impegno quotidiano e professionale contro la discriminazione e la violenza di genere identifica come sua più grande sfida la responsabilità di «ridare voce a tutte le survivor». Come? Con le parole giuste e gli spazi che meritano. «Spesso vengono descritte dai media senza dare loro la capacità di raccontarsi – evidenzia – oppure con l’utilizzo di terminologie scorrette».
«Basta parlare di “Revenge porn”: colpevolizza le vittime»
È il caso, ad esempio, del cosiddetto «revenge porn», un’espressione inglese entrata a pieno regime nella lingua italiana per indicare la condivisione non consensuale di materiale sessualmente esplicito. In italiano si traduce letteralmente come “vendetta porno”. Due parole che celano, secondo Fonte, una visione distorta del fenomeno, che colpevolizza la vittima. «Se parliamo di vendetta, identifichiamo anche l’esistenza di qualcuno che ha commesso un torto. Ugualmente sbagliato è l’uso in questo contesto della parola porno. Si tratta di un termine che indica materiale costruito su base contrattuale al fine di essere visto da terze persone. Tutti aspetti che nulla hanno a che fare con le immagini sessualmente esplicite diffuse senza consenso». Per Valeria Fonte nominare le cose è dunque un atto generativo ed ecco perché nella lotta contro la discriminazione di genere ritiene necessario focalizzare l’attenzione sull’utilizzo – spesso improprio – che si fa delle parole. «È così che lavorano le parole assassine: indisturbate. Solo perché non c’è sangue non vuol dire che non ci siano ferite. E quella stessa lingua che mi ha uccisa, ora è la mia arma».
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