Scuola IMT Alti Studi Lucca, al via l’anno accademico. Il rettore: «Ricerca d’avanguardia, approccio multidisciplinare e territorio: così siamo diventati un’eccellenza»
Quando nel 2021 ha assunto l’incarico di rettore della Scuola IMT Alti Studi Lucca, la prestigiosa scuola di alta formazione, Rocco De Nicola, 69 anni – una lunga carriera tra informatica e cybersecurity, già coordinatore di dottorato e presidente di corso di laurea in informatica in altre università – aveva promesso che sarebbe diventata «un’università del mondo». Oggi sono 68 gli studenti internazionali che portano avanti un dottorato di ricerca su un totale di 216 studenti. Oltre le aule e i laboratori del campus di 10mila metri quadri, c’è un oggetto simbolo delle aspirazioni globali della scuola a ordinamento speciale nata nel 2005. Un luogo dove insegnanti, ricercatori e progetti provenienti da Paesi e discipline diverse si incontrano per discutere: il divano in corridoio davanti alla stanza del rettore. «Lì spesso nascono le idee migliori», dice a Open De Nicola collegato via Zoom mentre sono in corso i preparativi per l’inaugurazione dell’anno accademico 2023-2024 che si terranno oggi – 18 novembre – alle ore 11.
IMT sta per istituzioni, mercati e tecnologie. Sono ancora i vostri pilastri?
«Siamo convinti che la sfida più importante per noi sia fare ricerca di avanguardia per essere – successivamente – al servizio delle istituzioni, dei mercati e soprattutto della società. Dalle teorie dei network ai deep fake e agli sviluppi dell’intelligenza artificiale, fino alla cybersicurezza: il nostro lavoro di ricerca punta a trovare risposte non solo dal punto di vista tecnico, ma anche giuridico ed economico. Guardiamo le sfide da diversi punti di vista, mettendo insieme competenze diverse, andando oltre la settorialità e i compartimenti stagni che spesso caratterizzano le università tradizionali. Nel corridoio davanti alla mia stanza si incontrano ingegneri, docenti di beni culturali, esperti di meccanica computazionale, economia. Lì, seduti sul divano, spesso ci confrontiamo».
Un approccio multidisciplinare e integrato molto lontano dal modello classico italiano. Come lo realizzate?
«Quando scegliamo le persone verifichiamo subito che abbiano questo tipo di sensibilità. Per noi è fondamentale: puoi aver vinto il Nobel ma se lavori chiuso nella tua area di ricerca, non sei un profilo interessante per IMT. Le università italiane, ad esempio, fanno a gara per accaparrarsi gli ERC. Non dico che noi non li vogliamo, però devono essere allineati alla nostra filosofia di lavoro».
Si riferisce ai bandi europei dell’European Research Council, quelli che supportano ricercatori e ricercatrici di qualsiasi nazionalità ed età che vogliono portare avanti un progetto di ricerca, considerato di frontiera, su un loro tema.
«Molte università li bramano anche perché alzano il rating degli istituti nelle classifiche. Per noi va benissimo averli se hanno un approccio sinergico, se lavorano insieme a noi, altrimenti ci rinunciamo. Magari il ricercatore che non accogliamo per sviluppare il suo progetto l’anno dopo vincerà il Nobel, tuttavia noi scegliamo di correre questo rischio perché puntiamo a un altro tipo di figura».
Il vostro istituto si pone da sempre l’obiettivo di formare la nuova classe dirigente. Negli ultimi tempi è tornato di attualità il tema del merito, che spesso si scontra con l’accesso alla formazione. Lei cosa ne pensa?
«Noi siamo una Scuola che forma soprattutto dottorandi, tutti provenienti da altre università, e la selezione dei dottorandi è basata solo sul merito. A oggi, tra coloro che partecipano ai nostri bandi, non abbiamo studenti che hanno già frequentato corsi di laurea alla Scuola IMT. È dunque sicuramente nostro interesse selezionare i migliori laureati italiani o stranieri in circolazione che diventeranno parte integrante dei nostri team di ricerca. Riguardo a valorizzare il merito, offriamo ai vincitori dei nostri concorsi oltre alla borsa anche vitto e alloggio, pertanto l’accesso non è condizionato dalla loro situazione economica. A mio parere il merito emerge anche nei corsi laurea delle università tradizionali: i capaci e i meritevoli che possono permettersi di studiare riescono ad emergere. Non sono d’accordo con chi dice che le università italiane non riescono a formare gli studenti. Non dobbiamo dimenticare che in Italia le università non sono categorizzate in Serie A, B o C, come accade ad esempio nel Regno Unito. I docenti operano in classi dove convivono persone che fanno fatica ad andare avanti e persone molto brave che vanno stimolate. Quando i laureati o i ricercatori italiani vanno all’estero non sfigurano con i colleghi che arrivano da un altro sistema formativo. Al contrario, il nostro Paese fatica a trattenere i talenti, soprattutto per via delle aziende e università straniere che fanno a gara per contendersi i migliori».
Il sogno di molte università è formare laureati pronti per il mercato del lavoro. Perché secondo lei rischia invece di essere un limite?
«È un grosso equivoco avere come obiettivo quello di formare persone pronte a inserirsi nel mercato. Il mercato cambia rapidamente obiettivi e bisogni di competenze. La vera sfida per la Scuola IMT e per le università in generale è insegnare alle persone le metodologie, lo spirito critico, lo studio non sulle nozioni ma sui problemi: questo formerà la classe dirigente di domani. Prendiamo l’informatica: 30 anni fa le aziende cercavano programmatori che conoscessero alla perfezione il Cobol, un linguaggio che poi è scomparso. Un bravo informatico non deve essere esperto di un unico linguaggio – destinato a nascere e morire in tempi brevi – ma deve conoscere i principi di base dei linguaggi di programmazione. Se noi ci fossilizziamo su quello che serve all’azienda in quel momento preciso non facciamo un favore allo studente, ma neanche al mondo delle imprese. Non mi fraintenda, è importantissimo mettere in contatto gli studenti con le esigenze delle aziende ma non si possono disegnare le loro competenze su quello. Le grandi università – penso a Oxford e Cambridge – non si pongono il problema di formare persone pronte per il mercato. Vogliono studiosi capaci di andare a fondo nei problemi: solo così si adatteranno a tutti i cambiamenti e a tutte le richieste, anche del mercato. Uno dei problemi italiani è proprio la mancata valorizzazione delle capacità intellettuali. A questo si aggiunge il tema dei salari: che tu abbia una laurea triennale, quinquennale o un dottorato non fa alcuna differenza sul tuo stipendio. Le multinazionali che investono in Italia hanno un atteggiamento diverso dalle aziende nazionali: i salari sono il 30% più alti di quelli italiani e fanno un investimento decisamente superiore sulla formazione del personale».
Come fate a portare avanti il vostro approccio?
«Occorre andare oltre l’insegnamento tradizionale: le lezioni frontali sono importanti ma lo sono di più i lavori di gruppo. Nel caso del dottorato in cybersicurezza, ad esempio, abbiamo economisti, giuristi, tecnici che lavorano insieme: persone con esperienze e competenze diverse. Per il progetto sulla riqualifica dei borghi della Garfagnana, ad esempio, abbiamo messo insieme esperti di digitalizzazione, di economia e di beni culturali. Questo ti insegna a capire che un problema va guardato nelle sue varie sfaccettature e ti abitua a dialogare con gli altri per cercare la soluzione. Il modello campus della scuola aiuta: qui gli studenti vivono insieme, non vanno solo in classe insieme».
L’Italia continua ad avere dei numeri drammatici sia per la digitalizzazione dei cittadini, sia per il numero di laureati in informatica. Cosa vuol dire essere una scuola d’eccellenza in un settore in cui il Paese fa molto fatica a uscire dagli ultimi posti delle classifiche europee?
«Tutta l’Europa è un po’ indietro quando si parla di digitalizzazione. Negli Stati Uniti, il numero di laureati in discipline collegate a Scienze e Tecnologie dell’Informazione negli ultimi dieci anni è aumentato del 150%, in Italia i numeri sono rimasti più o meno gli stessi. C’è un problema di vocazione ma anche di abbandoni: quelli della facoltà di informatica raggiungono quasi il 50% già tra il primo e il secondo anno».
Come lo spiega?
«Molti studenti hanno una percezione strana di cosa sia l’informatica. Pensano che siano computer games, poi scoprono che c’è l’analisi matematica, la geometria computazionale, la teoria della computabilità… Bisognerebbe avere dei tutor che seguono gli studenti del primo anno per aiutarli a superare i primi ostacoli. E un lavoro di orientamento che parta dalle scuole».
La Scuola IMT ha un progetto di orientamento dedicato alle giovani donne. In Italia sono poche quelle che studiano le materie STEM, anche in un centro di eccellenza come il vostro.
«Su questo bisogna agire non solo a livello di dottorato ma già dalle scuole superiori, se non prima. Per il dottorato in cybersicurezza con il programma CyberTrials stiamo provando a lavorare proprio sul concetto di role model. Crediamo che sia importante avere donne che vanno a parlare con le altre donne per dimostrare che l’informatica, come la cybersicurezza, non sono affatto cose da uomini. L’anno scorso abbiamo formato 1000 persone per questa missione».
C’è un problema di competenze della classe docente?
«Nelle scuole superiori gli insegnanti esperti di digitale sono davvero pochi. Come Scuola IMT contribuiamo a corsi di formazione gratuiti per gli insegnanti sulla cybersicurezza: possono scaricarli sulla piattaforma Sofia, li guardano e poi li assistiamo per dubbi o domande. Spesso a insegnare informatica ci sono matematici o fisici. Se nelle materie umanistiche a volte trovi anche normalisti come docenti, non c’è nessun normalista di matematica, di fisica, o di informatica che vada a insegnare a scuola. Sa perché? Perché hanno un mercato, mentre il salario degli insegnanti non ha alcuna attrattiva».
Questa è la scuola superiore. L’università come è messa in quanto ad attrattività?
«Anche qui iniziano a esserci vari soggetti – penso a Google, Amazon, Apple – a fare concorrenza. Uno dei miei dottorandi più bravi ora è andato a lavorare in Google: l’avrei tenuto volentieri ma non ero in grado di fare concorrenza al loro stipendio. L’università è ancora competitiva perché garantisce prestigio e perché continua a essere il luogo migliore se punti sulla passione e sulla libertà».
A questo proposito, i conflitti internazionali hanno risvegliato la coscienza civile di molte università italiane. Succede anche alla Scuola IMT? Lei cosa pensa dei docenti che si sono schierati sul conflitto israeliano-palestinese?
«Il dibattito c’è, ben venga uscire dal guscio ed esprimere le proprie opinioni. Sono perplesso però sull’opportunità di schierarsi, soprattutto quando si tratta di noi scienziati che diamo valore alla conoscenza approfondita e precisa di un tema. Come università il nostro obiettivo è e sarà sempre quello di fornire gli strumenti culturali e scientifici necessari per comprendere situazioni storiche e politiche drammatiche, educando al pensiero critico e consentendo una visione articolata della realtà. Se un professore vuole fare una dichiarazione politica, gli dico di farlo a titolo personale. Io come persona posso schierarmi, ma come università non mi sognerei mai di farlo. Noi dobbiamo essere solidali con tutti quelli che soffrono: israeliani, palestinesi, russi, ucraini, africani. Anche quando non condividiamo le azioni degli Stati, non boicotteremo i ricercatori e i professori, per lasciare una speranza a coloro che si oppongono alle scelte violente dei propri governi. L’anno scorso abbiamo dato ospitalità a una professoressa che veniva da Kharkiv e una ricercatrice in fuga da Kabul con la sua famiglia. Abbiamo bandi specifici per scienziati e ricercatori che fuggono dalle guerre e dalle zone disagiate, colpite da catastrofi o soggette a limitazioni delle libertà individuali».
La Scuola IMT è coinvolta nel Piano nazionale di ripresa e resilienza?
«Sì, partecipiamo a un partenariato esteso che riguarda la cybersicurezza, al progetto Life Science con tutti gli atenei toscani e il progetto SoBigData sulle Infrastrutture di ricerca».
Crede che il Pnrr sia ancora un’opportunità per l’università e la ricerca in Italia o possiamo già parlare di occasione mancata?
«Si poteva fare sicuramente di meglio. La responsabilità è fino a un certo punto del governo Meloni. Alcune cose sono state preparate prima del loro arrivo. Certo, aver messo persone nuove in posti chiave ha di sicuro complicato le cose. I meccanismi di rendicontazione e di controllo, ad esempio, sono una cosa veramente molto difficile. Ma resta il fatto che stanno arrivando tanti soldi, e sono sicuro che alla fine non li sprecheremo. La ricerca li utilizzerà bene. Se non si spenderà tutto, non sarà per colpa dei ricercatori ma merito della serietà dei ricercatori. Il nostro obiettivo infatti non è spendere per spendere. Il nodo sarà il post Pnrr, questa è una cosa a cui teniamo molto. Non si potranno chiudere all’improvviso i rubinetti: vorrebbe dire mandare via i ricercatori che abbiamo assunto per i progetti. Dovremo puntare a stabilizzarli per far crescere la forza lavoro della ricerca. La parola chiave è continuità, altrimenti sì che il Pnrr diventerà un’occasione mancata».
Mi faccia un altro esempio.
«Semplificare le cose per le start-up che nascono grazie al Piano. Quando sento dire “A Londra ho speso una sterlina per fare un’impresa” e qui in Italia invece bisogna andare dal notaio venti volte… Ecco, lavoriamo per dire che per le start up che nascono dal Pnrr dovranno avere una vita più semplice. Il punto vero del piano è quello che resterà: non sono i soldi dati ma la capacità di restare resilienti».
Parliamo di cyber security. L’Italia è considerato un Paese particolarmente a rischio per gli attacchi informatici. A livello globale ci sono due appuntamenti – le elezioni europee a giugno e le elezioni americane a novembre – che rendono urgente il tema e le sue implicazioni sulla democrazia.
«Non sono preoccupato per gli attacchi informatici ai server: essendo cose circoscritte nel tempo e nello spazio si può vigilare e intervenire facilmente. È la manipolazione delle informazioni il vero rischio per tutti noi. Uno studio che stiamo pubblicando riguarda il numero di bot in azione nelle ultime elezioni negli Stati Uniti nei cosiddetti Swing States, gli Stato in bilico dove si decidono le elezioni. Lì – a differenza di altri Stati dove l’esito del voto era considerato più certo – l’utilizzo di bot e fake news è stato notevole. Siamo al lavoro anche per capire come riconoscere le impronte digitali, quali messaggi hanno origine umana e quali provengono dall’intelligenza artificiale. A questo poi va accompagnato un lavoro sulla presa di coscienza da parte dei cittadini. Tornando all’importanza della ricaduta sul territorio, sono molto contento del fatto che proprio pochi giorni fa la Provincia sia venuta a chiederci una collaborazione su rischi e vantaggi dell’AI. Ancora una volta dalla ricerca più astratta all’aiuto concreto».
Intervista di Serena Danna
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