Perché Filippo Turetta ha ucciso Giulia Cecchettin e quali sono i segnali che fanno scattare l’allarme
Quello di Filippo Turetta ai danni di Giulia Cecchettin «non è un femminicidio classico». Perché il percorso di violenza, stalking e minacce che sfocia nell’omicidio qui «non c’è» o è appena accennato. Questo assassinio rientra «nell’ambito della questione familiare. Di uno sfascio di relazioni». Vera Slepoj, psicanalista, spiega oggi che Turetta ha in qualche modo incolpato Cecchettin della sua infelicità. Ovvero «ha trasferito nella sua storia sentimentale tutta la sua visione ideale». Nei confronti della sua ragazza Filippo aveva una «idealizzazione sproporzionata». Tanto da voler fare tutto insieme a lei. Slepoj dice di vedere lo stesso percorso mentale nei suoi pazienti adolescenti: «Credono che bisogna condividere tutto. È la cosiddetta fusionalità. Pesa in loro la cultura dell’amore intesa come possesso».
La questione familiare
Nell’intervista rilasciata ad Agostino Gramegna per il Corriere della Sera Slepoj spiega che i figli sono abbandonati a sé stessi. Il paradosso è che amano la propria famiglia, ma alla fine «è come se non l’avessero. I genitori dovrebbero esserci. Cominciando dalle medie, quando i figli cambiano fisicamente ed emotivamente». La psicanalista dice che il deserto in cui vengono su «i figli di oggi, soprattutto i maschi. Ai quali si chiede sempre di stare dentro l’azione, lo sport, e non dentro la relazione». Bisogna quindi «ripartire dall’educazione civica, dal rispetto. Scegliere la programmazione. Per esempio proporre i grandi romanzi d’amore , dove l’amore anche tragico è vissuto. Per apprendere che se ami non devi accoppiarti nella “fusionabilità”. I grandi libri d’amore servono a spiegare, analizzare e discutere».
La fusionabilità
Cosa è successo quindi a Turetta? «Gli è sfuggita di mano la prospettiva di vita. E non è riuscito a gestire il significato della vita dell’altro: ha pensato che l’altro dovesse entrare nella sua. Ma Giulia se n’è andata. Un atto per lui inconcepibile. Ha accumulato astio e l’ha incolpata della propria infelicità». Lo psichiatra e psicoanalista Vittorio Lingiardi invece dice ad Alessandra Ziniti di Repubblica che ci sono segnali che fanno scattare l’allarme. Ma prima contesta la definizione di “bravo ragazzo”: «Chi è un “bravo ragazzo”? Anche se la psicoanalisi ci mette in guardia rispetto al concetto di “normalità” e ci insegna che esiste la “normopatia”, cioè la tendenza eccessiva a uniformarsi alle regole sociali. Tutti noi abbiamo un’idea di “bravo ragazzo” e di “vita normale”. Spesso le azioni violente hanno una decifrabilità e una prevedibilità legate alla storia psichica di chi le compie».
Il “bravo ragazzo”
Ma la personalità, spiega Lingiardi, «non è solo ciò che appare in superficie: ci sono parti nascoste, a volte dissociate, che a un occhio allenato o attento sono più riconoscibili, ma che in alcun casi, non lasciano prevedere, anche dal punto di vista clinico, la possibilità di azioni estreme». Per lo psicanalista un partner violento, uno stupratore e un omicida sono figure diverse sul piano psicopatologico. Mentre alla base delle azioni compiute da maschi contro femmine c’è sempre un intreccio di fattori culturali e di fragilità psichiche individuali. «Per esempio, la convinzione implicita che la donna sia un’oggetto da controllare e dominare; che la relazione sia una palestra dove esercitare il proprio potere. La presenza di questi pensieri e dei comportamenti, anche non appariscenti, che ne conseguono, può essere considerata un segnale. Ma è importante sapere che sono orribili tentativi di esorcizzare i demoni della propria ammalata mascolinità».
La trasformazione psichica
Lingiardi aggiunge che sul versante maligno della personalità narcisistica alcuni aspetti tendono a esplodere in comportamenti violenti. Con un’anestesia completa delle facoltà empatiche, che «fa sì che l’altra persona venga disumanizzata e vista solo come un ostacolo da eliminare. È una violenza onnipotente che toglie di mezzo la donna che dice “posso fare a meno di te, voglio fare a meno di te”. Un affronto intollerabile che mette in crisi l’idea grandiosa di sé e l’idea della propria donna come madre che ti deve accudire e schiava che ti deve ubbidire». Secondo lo psicanalista è possibile una diagnosi non solo individuale, ma anche sociale e culturale che aiuta a riconoscere le situazioni a rischio. Così come la terapia individuale può aiutare.
Motivazione e consapevolezza
«Ma la terapia ha bisogno di motivazione e consapevolezza, anche minima, del proprio disturbo di personalità e della propria abissale fragilità emotiva. Dove la terapia individuale non arriva, è necessaria una “terapia sociale”. Fatta di educazione, studio, ascolto di testimonianze dirette, di esempi, capace di decostruire i pericolosi stereotipi di genere dai quali ancora oggi molti ragazzi e ragazze sono condizionati. In un mondo sempre più virtualizzato dobbiamo tornare a insegnare il rispetto dei corpi e delle relazioni», conclude.
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