Markovits e la critica alla meritocrazia: «Oggi premia i figli dei ricchi. La fine dell’età della crescita ci imporrà nuovi parametri» – La video-intervista
Il tema della meritocrazia torna ciclicamente, specie in momenti di crisi economica come quella partita con la Pandemia da Covid e che, per vari motivi, prosegue ancora oggi. Il dibattito si è particolarmente acceso, negli scorsi anni, soprattutto nelle università americane, con la pubblicazione del libro di Michael Sandel, professore di Filosofia ad Harvard, La Tirannia del merito (tradotto anche in Italia) e quello, più analitico, di Daniele Markovits, professore di Diritto a Yale, The Meritocracy Trap ancora non pubblicato in italiano. Con l’anno scolastico e universitario avviato e i continui dati che parlano di problemi crescenti tra gli studenti relativi all’ansia da prestazione il dibattito avviato torna d’attualità. Markovits, recentemente in Italia, per un ciclo di incontri, sta lavorando ad un nuovo testo sulla Fine dell’era della prosperità.
Professor Markovits, perché dice che la meritocrazia è una trappola? In Italia è un termine tornato molto di moda, esiste anche un ministero dedicato a Istruzione e Merito…
«Normalmente, pensiamo alla meritocrazia come un modo per dare vantaggi alle persone non in base alla loro famiglia, alla loro razza o al loro genere, ma in base ai loro risultati. La ragione per cui la meritocrazia è diventata una trappola, però, è che i risultati dipendono non solo dal talento o dall’impegno, ma anche dalla formazione. Ciò significa che se diamo vantaggi alle persone in base ai loro risultati, le persone che hanno la maggiore formazione andranno avanti. E quello che è successo, soprattutto negli Stati Uniti, ma anche sempre più in Europa negli ultimi 40 o 50 anni, è che i ricchi hanno iniziato a comprare sempre più istruzione per i loro figli, più di quanto chiunque altro possa permettersi. Negli Stati Uniti, gli studenti che hanno i voti e i punteggi più alti nei test, per esempio, sono soprattutto i figli di genitori ricchi, perché quelli sono i bambini che hanno avuto le scuole private più costose, i tutor più preparati, e tutta la formazione che ti permette poi di ottenere voti alti e punteggi top nei test. Questa differenza pesa sull’intero ciclo: quando la meritocrazia ammette gli studenti con i migliori risultati alle università, ammette in modo schiacciante gli studenti più ricchi. Quando la meritocrazia dà ai laureati delle università più elitarie i posti di lavoro migliori, sceglie in stragrande maggioranza i figli di genitori ricchi che poi diventano ricchi a loro volta. E il ciclo ricomincia.
Cosa può fare la politica per evitare questo effetto distorsivo di un principio nato per rendere la società più equa?
«Ci sono alcune cose che la politica può fare e altre che non sono modificabili. C’è una soluzione di cui si parla tanto ma che a ben vedere è parziale e non arriva all’obiettivo. Ovvero, la speranza che se l’élite si apre e inizia a cercare candidati che hanno risultati elevati e meritano, ma che non arrivano da famiglie benestanti, allora i candidati saranno così tanti che, di fatto, la meritocrazia diventerà un percorso di mobilità sociale e un sistema aperto ed equo. Il problema è che, poiché, come ho detto poco fa, l’istruzione funziona, e poiché i ricchi pagano per l’istruzione più di chiunque altro, semplicemente non ci sono abbastanza persone esterne all’élite che potranno essere coinvolte utilizzando quel metodo. Quindi è una strada destinata a fallire. L’unica cosa che può funzionare è essere meno escludenti. Fare in modo che le scuole elitarie istruiscano molte più persone. Avere i datori di lavoro migliori che assumono più persone, distribuiscono il lavoro tra più lavoratori con retribuzioni inferiori e producono così una maggiore uguaglianza di risultati. Ed è importante capire che questo non significa rinunciare all’idea che le persone dovrebbero essere brave in quello che fanno ma ammettere che c’è un altro modo di organizzare gli affari, che consiste nel dire che le persone non dovrebbero essere sempre eccellenti. Dovrebbero essere bravi a fare cose che vale la pena fare. E i posti di lavoro e i posti all’università dovrebbero andare alle persone che sono abbastanza brave in queste cose da poterne trarre profitto. Questo non significa che debbano essere migliori di tutti gli altri, significa solo che dovrebbero esserci delle soglie. Così i medici dovrebbero essere in grado di aiutare i pazienti malati. Gli avvocati dovrebbero essere in grado di aiutare i clienti. I banchieri dovrebbero essere in grado di gestire il denaro. Ma non dovrebbe esserci una competizione costante per chi è l’unico o i pochi migliori. Quella è una strada che porta alla disuguaglianza.
C’è un punto nel libro in cui parla di fare debunking della meritocrazia, termine che a Open amiamo molto, visto che abbiamo anche un dipartimento fact checking. Può spiegarlo meglio?
«Faccio un esempio molto concreto. Immagini di essere qualcuno in grado di accumulare e manipolare grandi quantità di dati e fare previsioni a breve termine sui rischi nella nostra società. Lei è una persona super qualificata perché queste sono le competenze di cui hai bisogno per essere un trader finanziario. Nella nostra società, i trader guadagnano enormi somme di denaro. Ma ovviamente ci sono state altre società in cui quelle particolari abilità non erano molto preziose. Ad esempio, in una società agraria, se eri un agricoltore, quelle abilità non ti aiutavano affatto, così come nelle società operaie o nell’artigianato. Ciò che conta come abilità cambia da luogo a luogo e di volta in volta. Il motivo per cui le competenze che rendono incredibilmente prezioso un trader finanziario sono così preziose oggi è che esiste un’enorme quantità di disuguaglianza. Se ci fossero meno disuguaglianze, meno concentrazioni di capitale e meno super ricchi, la finanza non sarebbe così preziosa. Quello che cerco di dimostrare con questo argomento è che la meritocrazia crea una sorta di circolo. L’élite dice che siamo così preziosi perché abbiamo queste abilità che sono così preziose e quindi dovremmo essere pagati molto bene. Ma l’unica ragione per cui queste competenze sono così preziose è che le élite sono pagate molto bene.
Lei ha scritto di essere un prodotto della meritocrazia. Come gestisce la sua vita? Sceglie di formare i suoi figli per le università di eccellenza americane o di tenerli fuori da questo circolo?
«Quando ho scritto questo libro, ho deciso che non volevo parlare dei miei figli, che sono dei ragazzi. Ma quello che sono pronto a dire, e che è che parte dell’argomentazione del libro, è che nessuno può sfuggire a questo sistema. Non è che se riesci semplicemente a pensare nel modo giusto o se sei semplicemente più virtuoso, puoi condurre una vita libera da queste distorsioni. Siamo tutti incastrati in questo meccanismo. Io come tutti gli altri.
C’è una via d’uscita da questo circolo meritocratico?
«L’unico consiglio che posso dare è che, se siete all’interno dell’élite, ogni volta che avete la possibilità di scambiare un po’ di reddito o di status con la libertà, scegliete la libertà, non avete bisogno del reddito e dello status. E se sei fuori dall’élite, il fatto che tu abbia difficoltà ad andare avanti non è colpa tua. E non è nemmeno colpa degli immigrati o delle persone di colore. È colpa di un sistema che favorisce l’élite. A livello collettivo ci sono cose che possiamo fare. Possiamo riformare la nostra politica e i nostri sistemi educativi per istruire molte, molte più persone in modo molto più equo. Possiamo cambiare il modo in cui organizziamo i nostri luoghi di lavoro per favorire i lavoratori della classe media, per dare potere ai lavoratori mediamente qualificati e togliere potere alle élite lavorative. Possiamo cambiare il nostro sistema fiscale per dare incentivi alle persone di classe media piuttosto che, come avviene ora, soprattutto negli Stati Uniti, avere enormi incentivi fiscali per licenziare le persone di classe media e sostituirle con le macchine. Ma non è un sistema contro cui si può combattere una sola persona alla volta. Ed è per questo che è una trappola.
Nel libro spiega che questa è una trappola anche perché i ricchi e i poveri lavorano di più. Quindi, non c’è tempo libero anche se sei in alto.
«Sì, per chi sta al vertice è una trappola, perché la storia che sto raccontando è quella in cui la principale fonte di reddito e ricchezza è il capitale umano. Se possiedi un terreno o una fabbrica, la tua ricchezza ti rende libero perché puoi mescolare la tua terra con il lavoro di qualcun altro e fare quello che vuoi. Ma se possiedi le tue capacità, allora sei intrappolato dalla tua ricchezza perché l’unico modo per ottenere un reddito dalle tue capacità è spremerle con il tuo stesso lavoro. E quindi le élite devono lavorare molto, molto duramente. Ed è proprio per questo che è una trappola per le élite. Nel frattempo, questo sistema svaluta tutti gli altri, li esclude da un vantaggio significativo. Anche se il problema riguarda soprattutto le classi più basse, è significativo che questo problema riguardi anche le élite.
Nel nuovo lavoro spiega che l’età della crescita è alla fine. Cosa significa?
«Per gran parte della storia umana non c’è stata praticamente alcuna crescita economica. La popolazione aumentò solo molto lentamente e le singole persone non diventarono molto più ricche. Ad esempio, ci sono voluti circa 2500 anni fino al 1800 perché la popolazione mondiale passasse da 100 milioni di persone a un miliardo di persone. In quel periodo di 2500 anni, i redditi medi e la ricchezza sono aumentati in modo incredibilmente lento. Sono raddoppiati o triplicati nel corso di 2000 anni. Nei 250 anni successivi, la popolazione mondiale è aumentata nuovamente di un fattore dieci e i redditi medi aumentati di un fattore trenta. Questa è l’età della crescita: cresce la popolazione e tutti i componenti diventano costantemente molto, molto più ricchi. Che questa era stia per finire ce lo dice, ad esempio, che se i prossimi 250 anni dovessero assomigliare agli ultimi 250 anni, allora nell’anno 2300 ci sarebbero 100 miliardi di persone sulla Terra che sarebbero in media ricche quanto lo è oggi il cittadino medio del Portogallo. E’ ovvio che il pianeta non può sostenerlo. Ciò significa che la crescita rallenterà. La crescita della popolazione rallenterà e anche la crescita del reddito medio rallenterà. In questa fase anche i nostri valori dovranno cambiare.
Il timore è che se finisce la crescita, saremo condannati alla guerra, o forse a tante guerre e magari anche a qualcosa di peggiore, a causa del cambiamento climatico…
«Non sono un ottimista tecnologico. Non penso che possiamo innovare per uscire dal cambiamento climatico. Ma non sono nemmeno un catastrofista. Penso che possiamo migliorare la situazione innovando, cambiando il nostro comportamento e rendendoci conto che ad un certo punto avremo reddito e ricchezza sufficienti e non avremo bisogno di altro. Possiamo vivere molto bene. Non possiamo, semplicemente, arricchirci costantemente. Ad un certo punto dovremo smettere di arricchirci. Ed è proprio questo il punto del nuovo libro: una volta che avremo smesso di arricchirci, a cosa dovremmo aspirare? Oggi vogliamo più reddito e più ricchezza. Ma ciò di cui abbiamo effettivamente bisogno è meglio. Abbiamo bisogno di vite più significative, di relazioni più profonde, di un lavoro più gratificante. Dovremo imparare a concentrarci su questi valori e ad allontanarci dalla crescita.
Ma non avremmo bisogno di crescere anche per finanziare questo nuovo sistema?
«Se non ci fosse così tanta disuguaglianza, ci sarebbe abbastanza ricchezza materiale in un paese come gli Stati Uniti e anche in Europa nel suo insieme, da permettere a tutti di avere tutto il reddito necessario di cui hanno bisogno. Ora, ovviamente, questo non è vero in gran parte dell’Africa. Non è ancora vero in India. Non è ancora vero in Cina. Ai tassi di crescita attuali, lo stesso avverrà in India e Cina entro la fine di questo secolo. E una volta che ciò accadrà, una volta che la media sarà sufficiente, allora la domanda più urgente diventerà non come possiamo creare più reddito, ma come possiamo creare un reddito più equo?
Cambiamenti che portino ad una maggiore equità possono essere raggiunti senza una mobilitazione politica? Semplicemente per razionalità e senza lottare?
«Non credo che qualcuno fa una discussione e il mondo cambia. Prima di tutto, può diagnosticare le possibilità. Può identificare che questa volta potrebbe essere diverso, quando il mondo diventa abbastanza ricco, il caso dell’uguaglianza diventa più convincente. E la seconda cosa che può fare è identificare le ragioni che la politica può usare per raggiungere i suoi scopi, in particolare che a un certo punto, per esempio, la disuguaglianza non va bene nemmeno per i ricchi. Si tratta di argomenti che non fanno parte di una lotta politica. Ma possono fornire le idee che una lotta politica può mettere in campo. Poi sì, ci sarà una lotta politica. Sta arrivando. È chiaro al di là di ogni dubbio, o delle differenti opinioni, che il cambiamento climatico significa che ci sarà una lotta politica intorno alla vita economica e materiale. E quello che mi auguro è che, se comprendiamo correttamente quali sono le possibilità, questa lotta possa giungere a una conclusione positiva anziché fallimentare.
Cosa possono fare le giovani generazioni in questo senso?
«Non sono sicuro che sia compito mio dire ai giovani cosa fare, anche perché non è chiaro se la mia generazione abbia fatto un lavoro così eccezionale. Quando osservo i miei studenti, vedo che sembrano capire che nel nostro sistema, reddito e ricchezza hanno un costo, che se vuoi diventare ricco devi essere disposto a sottometterti ad attività e lavori che non trovi così gratificanti. E la generazione più giovane oggi sembra essere sempre più incline a dire: “Non sono disposto a farlo”. Sembrano anche capire che una politica di uguaglianza economica è essenziale per la prosperità di tutti, e sembrano capire che esiste un’interazione tra uguaglianza economica, lavoro significativo e cambiamento climatico che può essere gestita per creare alleati e movimenti sociali per produrre il mondo migliore che cercano.
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