Diagnosi tardive, stigma e discriminazione negli ospedali: cosa (non) è cambiato per le persone con Hiv dagli anni ’80 a oggi – L’intervista
Era il 3 luglio del 1981 e in un trafiletto del New York Times si cominciò a parlare di Aids come di una «rara forma di cancro trovata in 41 omosessuali». L’articolo di Lawrence Altman uscì sulle colonne del quotidiano statunitense circa un mese dopo la diffusione del bollettino dei Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie di Atlanta, che registrarono cinque casi di Pneumocystis carinii. Si trattava di uomini, omosessuali, due di loro deceduti prima della pubblicazione della scoperta. I media ribattezzarono l’infezione «Gay-related immune deficiency» (immunodeficienza correlata all’omosessualità) o «cancro dei gay». Ma i Centers for Disease Control and Prevention scoprirono come il virus fosse presente anche nelle comunità degli haitiani, emofiliaci ed eroinomani. Coniarono, così, l’espressione «Malattia 4H», ovvero Haitians, Homosexuals, Hemophiliacs ed Heroin users. Circa un anno dopo assunse infine il nome attuale: Aids, sindrome da immunodeficienza acquisita. Nel 1984 la virologa francese Françoise Barré-Sinoussi scoprii il virus responsabile della malattia, l’Hiv. Quarantadue anni dopo quell’articolo sul Gray Lady (Nyt) molte cose sono cambiate, altre (forse) meno.
Un po’ di dati
Dopo oltre un decennio di trend in decrescita, in Italia si osserva un aumento dell’incidenza Hiv nei due anni post-Covid. Stando all’ultimo bollettino dell’Istituto Superiore di Sanità pubblicato ieri, 30 novembre 2023, nel 2022 le nuove diagnosi sono state 1888, +32% rispetto al 2020. Un’incidenza inferiore dalla media osservata tra gli Stati dell’Ue (5,1 casi per 100mila residente, 22.995 diagnosticati). Nonostante questo, i contagi sono in calo del 3,8% rispetto al periodo pre-pandemia. Questi ultimi avvengono per il 90% nei rapporti sessuali: il 46,3% eterosessuali, il 45,8% omosessuali. Ciò che è aumentato, si legge nel report, è la quota di nuove diagnosi in persone con più di 50 anni: dal 20% del 2015 è passata al 31% del 2022. Nel complesso, però, il dato di un anno fa risulta del 25% più basso rispetto al 2019 e, rispetto a 10 anni fa, i casi sono più che dimezzati. Migliora la situazione dell’Aids (quest’ultima non si trasmette, al massimo il virus dell’Hiv che, se non trattato, sfocia in Aids): oltre 2 mila le diagnosi nel 2022, con un tasso di 0,6 ogni 100 mila abitanti, la metà di quello registrato 10 anni fa.
«Se andiamo a vedere i dati italiani Milano è l’unica città che ha visto una decrescita significativa del numero di nuove diagnosi. Come mai? – si chiede Daniele Calzavara, coordinatore di Milano Check Point, uno spazio community based che ha aperto i suoi servizi nel 2019 e offre gratuitamente test rapidi per l’Hiv e per altre infezioni sessualmente trasmissibili -. Io credo che a Milano qualcosa stia accadendo: la Prep, profilassi pre-esposizione da Hiv, sicuramente è uno degli elementi fondamentali per sognare di raggiungere nel 2030 l’obiettivo delle Nazioni Unite di debellare il virus dell’Hiv». Un obiettivo «abbastanza vicino in Europa occidentale», spiega a Open Calzavara che ricorda inoltre come ci siano moltissimi Paesi dove i contagi sono in continuo aumento e l’accesso alle terapie non è sempre garantito. «In Africa – spiega – oltre 10 milioni non hanno accesso alle terapie; negli Usa l’Hiv è un problema sociale che riguarda soprattutto le minoranze». Ciò che serve è «un grandissimo investimento – continua – e un cambiamento culturale che non deve lasciare indietro nessuno».
«Manca una cultura della salute sessuale»: lo stigma
L’ipotesi di contrarre l’infezione sembrerebbe non riguardarci. Qualcosa da allontanare, rigettare. La classica «cosa» che capita agli altri, non a noi. Al contrario, l’Hiv può colpire chiunque adotti comportamenti a rischio. C’è un grande sommerso connesso a questo a fenomeno: più di una persona su 10 che vive con l’Hiv non lo sa. Ciò contribuisce a diagnosi tardive, al peggioramento dei risultati e alla continua diffusione del virus. Con ogni probabilità le persone che non si sottopongono ai test hanno timore di essere marginalizzate. Nonostante i progressi nella prevenzione, nel trattamento e nell’assistenza, lo stigma all’interno della società è radicato. «Questo vuol dire che manca una consapevolezza nei confronti dell’Hiv, una cultura della salute sessuale», spiega Calzavara. «Siamo uno dei pochi Paesi insieme alla Polonia e all’Ungheria di Orbán – continua – a non avere l’educazione sessuo-affettiva nelle scuole». Una voragine educativa, culturale ma anche informativa alimentano, dunque, la connotazione negativa dell’infezione. «L’ultima comunicazione istituzionale sull’Hiv fatta su larga scala e piena di bias risale agli anni ’90 – dice il coordinatore -. Era costruita sulla paura e ha creato uno stigma e una discriminazione verso le persone con Hiv e verso il virus stesso di dimensioni enormi. E ancora oggi – continua -, non essendoci stata una narrazione continua e che si è evoluta nel tempo ci troviamo con quell’immaginario legato agli anni ’80-’90».
La discriminazione negli ambienti ospedalieri
Chi ha l’Hiv è spesso invisibile, o (forse) invisibilizzato. «Le persone visibili – ribadisce Calzavara – sono pochissime» e questo «è dovuto a una discriminazione che è sistemica in tutti gli ambienti, come ad esempio in quello sanitario. Ancora oggi – racconta – succede che alle persone con Hiv vengano rifiutate le cure dal dentista o vengano messe per ultime nelle liste d’attesa per un intervento chirurgico». Una serie di comportamenti discriminatori che «creano paura» e fanno scaturire nelle persone una sorta di «autostigma». Secondo il coordinatore dell’associazione milanese «lo stigma ti entra dentro, si radica e questo fa sì che le persone con Hiv non vivano bene, non si sentano a proprio agio e facciamo fatica a fare coming out». Dichiararsi o rendersi visibili è «una cosa molto potente» e «se fatta bene e in momento in cui la persona è pronta è un’azione politica straordinaria». Condividere con le persone fidate questo momento intimo «può essere un modo per creare consapevolezza, creare coscienza. Dire: “Sono io non devi aver paura perché non c’è niente di cui aver paura, non c’è pericolo”. Dare una faccia a una cosa che fa paura la normalizza e migliora tutta la situazione», conclude.
U=U
Oggi le persone con Hiv, se trattate con farmaci efficaci da circa 6 mesi, non trasmettono il virus. Neanche sessualmente. Lo sappiamo, o dovremmo saperlo, ormai da tempo. Devono sottoporsi a periodici controlli medici, fare particolare attenzione alla propria salute fisica e mentale. Quest’ultima, per certi versi, compromessa da senso di colpa interiorizzato, opinioni, giudizi altrui. La più grande rivoluzione nei confronti dell’Hiv è legata all’equazione U=U (Undetectable = Untrasmittable, ovvero non rilevabile = non trasmissibile). Ciò significa che se la terapia antiretrovirale è efficace, la quantità di virus è talmente ridotta (nel sangue, nei fluidi corporei) da eliminare completamente il rischio di trasmissione dell’Hiv per via sessuale. «Questo è straordinario perché da una parte abbatte lo stigma, ci dice che non dobbiamo avere paura delle persone con Hiv. E dall’altra è una promessa per tutte le persone, ovvero non è importante se ho l’Hiv o no perché oggi mi posso curare, posso star bene, posso essere libero, posso vivere a lungo, posso programmare la mia vita e posso avere dei figli se lo voglio», spiega Calzavara. Quello che ancora oggi manca è invece un vaccino: «Quelli degli ultimi anni sono finiti, purtroppo, con una sospensione anticipata per inefficacia. Quindi – conclude – non abbiamo un vaccino preventivo, non abbiamo vaccini terapeutici e non abbiamo soprattutto una cura eradicante».