Nika, Aida e quelle ragazze iraniane che ci interrogano sulla nostra lotta per la libertà
I corpi delle donne iraniane sono diventati strumento di lotta politica. Hanno occupato gli spazi, protestato, demolito l’hijab. Corpi che hanno conosciuto la sorveglianza della teocrazia. Sono stati puniti, maltrattati, trasfigurati, stuprati. Eppure, sono scesi in piazza lo stesso contro l’oppressore. Hanno «bruciato» l’indifferenza. Nika, Aida, Asra e tante altre ancora hanno messo i corpi di «traverso al passato». Le loro storie, raccontate da Barbara Stefanelli in Love Harder (Solferino), ci interrogano da vicino. Dovrebbero farlo. Fondatrice de La 27ora e del Tempo delle donne, la vicedirettrice vicaria del Corriere della Sera intercetta volti, e con essi corpi, delle giovani che hanno dato vita dal settembre 2022 al movimento Jin, Jîyan, Azadî (Donna, vita, libertà) dopo l’uccisione di Mahsa Amini. «Per custodirne i nome, il sacrificio e le promesse». Perché «deve risuonare la loro chiamata a combattere». E ad amare «più forte». Perché, sembra suggerire Stefanelli, non sia stato invano il gesto di chi ha pagato con la morte lo scagliarsi contro un regime sessista e che reprime con la forza ogni forma di dissenso.
Corpo violato, zittito, sfigurato
Lo dobbiamo a Nika Shakarami e al suo corpo violato. «Capelli scuri stretti da un elastico bianco come le scarpe da tennis» che indossa il giorno della sua uccisione. Una giovane donna, scesa in strada a protestare, che sa che cosa potrebbe succederle, ma non ha paura. La sua, come molte altre, è una storia di menzogne, depistaggi, inganni. I suoi famigliari l’hanno vista per l’ultima volta: ha il cranio segnato dai colpi, la nuca sfondata da un bastone. Lo dobbiamo ad Asra Panahi e al suo corpo zittito. Promessa del nuoto per quel suo «stile libero con tempi da record regionale», scrive Stefanelli. Finita sul letto d’ospedale per non aver intonato l’inno che esalta la Guida Suprema durante le celebrazioni aperte al pubblico. Il suo cuore «non avrebbe retto», dice suo zio ai telegiornali di Stato. «Un incidente» per le veline di regime. «Suicidio», spiega il magistrato. Lo dobbiamo ad Elaheh Tavakoliyan e al suo corpo sfigurato. Ferita a un occhio alle 18 «di un giorno qualunque». Voleva dimostrare ai suoi figli, due gemelli, «che cos’è il coraggio, che si può scegliere di resistere». L’uomo mira alla sua testa, «forse infastidito dalla sua bellezza e si compiace di poterla sfregiare». Spara all’occhio, il proiettile si sminuzza tra l’orbita e l’osso dello zigomo. Si salva.
Quanto saremmo capaci di batterci per la libertà?
Il corpo delle giovani donne è al centro di questa rivoluzione, anche perché è il centro di ogni liberazione sociale. Stefanelli fissa nella mente di ciascuno queste storie, volti, questi corpi. Li custodisce affinché tutti possano interrogarsi su se stessi. «Noi che ci sentiamo al riparo» quanto saremmo capaci di batterci per la libertà? L’autrice si domanda cosa avrebbe fatto se fosse stata sua figlia. Una trasposizione che tocca tutti quelli che leggono il libro: come ci si saremmo comportati al posto di Nina, Aida, Asra e Mahsa? Saremmo scese in strada? Avremmo utilizzato il corpo per sfidare l’autorità, per metterlo «di traverso al passato»? Forse davvero «la ribellione è l’unica vita bella possibile, l’unica accettabile e necessaria». Ha ragione Stefanelli quando scrive che l’Iran ci interroga da vicino. Il tentativo delle donne iraniane di riprendere il controllo esclusivo del proprio corpo e riconquistare lo spazio diventa una atto politico trasversale a tutti i gruppi sociali tenuti ai margini. Riecheggia in Italia, dove le donne stanno occupando gli spazi per Giulia Cecchettin, per le 107 donne uccise nel 2023, sperimentando come una storia da individuale possa diventare collettiva. Perché anche questa è una battaglia contro l’oppressione per trasformare «la rabbia in qualcosa di nuovo», e innescare un cambiamento. Ed ecco che il verso Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima (Cristina Torres-Cáceres) diventa un promessa che deve oltrepassare i confini. Quelli iraniani, quelli italiani. Solo così «possiamo (continuare ad) amare più forte» ed è per questo che «dobbiamo ancora combattere». Per Giulia, Mahsa. Per Nika, Aida, Asra.