L’indagine sul fratello e sulla madre di Alex Pompa dopo la condanna: «Hanno mentito per proteggerlo»
La sentenza che ha condannato Alex Pompa (oggi Cotoia: ha preso il cognome della madre) a 6 anni e due mesi di carcere per l’omicidio del padre Giuseppe contiene una sorpresa. La Corte d’Assise di Torino ha infatti ordinato la trasmissione degli atti in procura. Per valutare se il fratello Loris e la madre Maria Cotoia abbiano mentito durante le loro testimonianze. Nelle motivazioni che saranno depositate tra 90 giorni i giudici spiegheranno cosa non andava nelle loro ricostruzioni. Ma, spiega oggi l’edizione torinese di Repubblica, l’idea è che alcune dichiarazioni sono risultate “ad hoc” in quella che sembrerebbe una strategia comune per minimizzare il danno. Sotto la lente c’è sempre la sera del 30 aprile 2020 a Collegno quando Alex sferrò 34 coltellate con sei coltelli diversi.
Il toro che vede rosso
I giudici avevano infatti contestato durante le udienze a Loris e a Maria di aver usato la stessa immagine per descrivere la rabbia del padre: «Era come un toro che vede rosso». Cotoia aveva anche detto di non aver visto l’omicidio: «Sono sempre rimasta in bagno fino all’arrivo dei carabinieri». Il fratello invece aveva parlato di un flash nella memoria in cui il padre si era armato. Poi il corpo a terra. «Io sono molto impressionabile e la scena era piena di sangue. Se ci penso adesso mi viene da vomitare», aveva detto Loris. La presidente l’aveva ripreso parlando di un ricordo selettivo. Mentre il pm Alessandro Aghemo gli ha chiesto perché nessuno abbia aiutato il padre: «È durato pochissimo, io penso di essermi girato. Poi Alex ha chiamato i carabinieri. Io sono andato in bagno e ho preso i fermenti lattici», è stata la risposta. In caso di condanna rischiano a loro volta da uno a sei anni di carcere.
«Lui non è un assassino»
Maria Cotoia invece parla con il Corriere della Sera. Ripete che il figlio «non è un assassino» e che quella notte le ha salvato la vita. Di Giuseppe la moglie ha detto che era geloso: «Negli ultimi dieci anni, in modo patologico. Era ossessionato. Si arrabbiava per ogni cosa e perdeva il controllo: insulti, bestemmie e minacce. Mi urlava addosso, afferrandomi i polsi e le braccia. Mi spingeva. Era un violento». E ancora: «In alcune occasioni li ha riempiti di botte perché secondo lui non avevano giocato bene a pallone. Ogni volta mi ripetevo che dovevo resistere e ai miei ragazzi dicevo che dovevano estraniarsi. Non meritavano un padre così, loro sono dei bravi ragazzi. Prima o poi ci avrebbe ucciso». I ragazzi avevano registrato il padre e la madre di nascosto: «Sono stanca, mio marito mi bombarda di telefonate. Mi insulta. Se mi dovesse succedere qualcosa, sia a me che ai miei figli, è stato sicuramente lui. Chiama sia qui a casa che al telefono. Non ce la posso più fare».
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