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I dati stanno uccidendo il calcio? L’allarme del New York Times: «Sarà sempre meno divertente»

18 Dicembre 2023 - 23:58 Redazione
Statistiche, analisi tattiche, migliori performance: più conoscerà se stesso, meno sarà in grado in intrattenere. La tesi dell'editorialista Rory Smith

«Il calcio conosce molto di più su se stesso che in qualsiasi altro momento della sua storia. Inevitabile nell’era dell’informazione. Le squadre sono incentivate – obbligate, in effetti – a cercare qualsiasi vantaggio che possa aumentare le loro possibilità di vittoria. Ma il problema è che il calcio, come tutti gli sport, ha un altro imperativo: divertire». Diviso tra l’iper-conoscenza e la necessità di attrarre pubblico, il calcio rischia di entrare in stallo. L’allarme arriva dall’esperto in materia Rory Smith, giornalista sportivo del New York Times, gosthwriter di Rafa Benitez nel 2012 e curatore della newsletter calcistica per il quotidiano statunitense. Di più: Smith su calcio e «data» ha scritto un libro nel 2022, spiegando proprio come analisi, statistiche e dati abbiano cambiato e «conquistato» il calcio. Nell’ultimo numero del suo appuntamento con i lettori, Smith ha evidenziato i rischi di un calcio iper analitico e iper analizzato, quasi robotico. Uno sport che mai come negli ultimi 30 anni ha cambiato pelle ma che rischia di aver sacrificato uno dei suoi elementi più spettacolari: l’effetto sorpresa. «Quando giochi contro qualcuno due volte a stagione, ogni stagione, inizi a vedere piccoli indizi, a immaginare cosa verrà dopo», ha ammesso il difensore del Leeds Dan Burn alla Bbc pochi giorni fa. Smith non si limita a dire che il calcio è cambiato e che non esistono più i numeri dieci di una volta. Non è solo l’estro, la fantasia, il talento del singolo a essere imbrigliato da schemi e analisi predittive. Il rischio è che il calcio diventi noioso da guardare e perda pubblico, appassendo sotto una mole di dati.

L’informazione è potere

«La fiorente economia di questo sport si basa sull’idea che le persone pagheranno per guardarlo, tramite biglietti a prezzi esorbitanti o pacchetti di abbonamento a prezzi esorbitanti. In cambio, chiederanno uno spettacolo avvincente e coinvolgente», ragiona Smith. Ma se questo viene meno, il patto si rompe. «Tutti nel calcio, dai dirigenti ai giocatori, agli allenatori e agli analisti, sono pagati per vincere. Se non vincono, tendono a non essere più pagati», prosegue, «questa è la metrica delle prestazioni che conta di più per loro. Che il resto di noi lo trovi divertente o meno è, nella migliore delle ipotesi, una considerazione secondaria». Il pericolo non è dietro l’angolo: «È difficile sostenere che il calcio stia diventando meno divertente. È vero, ci sono variazioni da stagione a stagione – alcune saranno, per definizione, più coinvolgenti di altre – ma la curva complessiva è ascendente. Nel comprendere se stesso, il calcio è stato in grado di oltrepassare i limiti delle proprie possibilità. L’informazione è servita a abbellire lo spettacolo, anziché a sminuirlo. Se sarà sempre così è una questione diversa».

Il calcio sta passando da essere una gara fisica a un gioco mentale, il processo è avviato e non sembra ostacolato: «Non tanto una serie di battaglie individuali quanto una serie di manovre strategiche collettive». Ed eccolo qui il sacrificio dell’effetto sorpresa: «Per 90 minuti, due squadre che non possono essere sorprese, che sanno esattamente cosa sta cercando di fare l’altra, si impegnano in una serie di finte, spostamenti e astuzie mentre tentano di identificare un punto debole, di progettare una vulnerabilità. Il vincitore è colui che riesce a creare anche il più breve degli squilibri». Una traiettoria che non ha ancora svelato il suo intero arco, ma Smith ne è convinto: «È possibile che la conclusione naturale non sia un’ulteriore crescita ma uno stallo indissolubile, dove lo sport non è più sollevato dalla sua conoscenza ma da essa gravato, dove l’impulso a vincere viene a scapito della necessità di intrattenere. La familiarità, dopo tutto, genera disprezzo, e ci sono momenti in cui è possibile sapere troppo».

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