I dati stanno uccidendo il calcio? L’allarme del New York Times: «Sarà sempre meno divertente»
«Il calcio conosce molto di più su se stesso che in qualsiasi altro momento della sua storia. Inevitabile nell’era dell’informazione. Le squadre sono incentivate – obbligate, in effetti – a cercare qualsiasi vantaggio che possa aumentare le loro possibilità di vittoria. Ma il problema è che il calcio, come tutti gli sport, ha un altro imperativo: divertire». Diviso tra l’iper-conoscenza e la necessità di attrarre pubblico, il calcio rischia di entrare in stallo. L’allarme arriva dall’esperto in materia Rory Smith, giornalista sportivo del New York Times, gosthwriter di Rafa Benitez nel 2012 e curatore della newsletter calcistica per il quotidiano statunitense. Di più: Smith su calcio e «data» ha scritto un libro nel 2022, spiegando proprio come analisi, statistiche e dati abbiano cambiato e «conquistato» il calcio. Nell’ultimo numero del suo appuntamento con i lettori, Smith ha evidenziato i rischi di un calcio iper analitico e iper analizzato, quasi robotico. Uno sport che mai come negli ultimi 30 anni ha cambiato pelle ma che rischia di aver sacrificato uno dei suoi elementi più spettacolari: l’effetto sorpresa. «Quando giochi contro qualcuno due volte a stagione, ogni stagione, inizi a vedere piccoli indizi, a immaginare cosa verrà dopo», ha ammesso il difensore del Leeds Dan Burn alla Bbc pochi giorni fa. Smith non si limita a dire che il calcio è cambiato e che non esistono più i numeri dieci di una volta. Non è solo l’estro, la fantasia, il talento del singolo a essere imbrigliato da schemi e analisi predittive. Il rischio è che il calcio diventi noioso da guardare e perda pubblico, appassendo sotto una mole di dati.
L’informazione è potere
«La fiorente economia di questo sport si basa sull’idea che le persone pagheranno per guardarlo, tramite biglietti a prezzi esorbitanti o pacchetti di abbonamento a prezzi esorbitanti. In cambio, chiederanno uno spettacolo avvincente e coinvolgente», ragiona Smith. Ma se questo viene meno, il patto si rompe. «Tutti nel calcio, dai dirigenti ai giocatori, agli allenatori e agli analisti, sono pagati per vincere. Se non vincono, tendono a non essere più pagati», prosegue, «questa è la metrica delle prestazioni che conta di più per loro. Che il resto di noi lo trovi divertente o meno è, nella migliore delle ipotesi, una considerazione secondaria». Il pericolo non è dietro l’angolo: «È difficile sostenere che il calcio stia diventando meno divertente. È vero, ci sono variazioni da stagione a stagione – alcune saranno, per definizione, più coinvolgenti di altre – ma la curva complessiva è ascendente. Nel comprendere se stesso, il calcio è stato in grado di oltrepassare i limiti delle proprie possibilità. L’informazione è servita a abbellire lo spettacolo, anziché a sminuirlo. Se sarà sempre così è una questione diversa».
Il calcio sta passando da essere una gara fisica a un gioco mentale, il processo è avviato e non sembra ostacolato: «Non tanto una serie di battaglie individuali quanto una serie di manovre strategiche collettive». Ed eccolo qui il sacrificio dell’effetto sorpresa: «Per 90 minuti, due squadre che non possono essere sorprese, che sanno esattamente cosa sta cercando di fare l’altra, si impegnano in una serie di finte, spostamenti e astuzie mentre tentano di identificare un punto debole, di progettare una vulnerabilità. Il vincitore è colui che riesce a creare anche il più breve degli squilibri». Una traiettoria che non ha ancora svelato il suo intero arco, ma Smith ne è convinto: «È possibile che la conclusione naturale non sia un’ulteriore crescita ma uno stallo indissolubile, dove lo sport non è più sollevato dalla sua conoscenza ma da essa gravato, dove l’impulso a vincere viene a scapito della necessità di intrattenere. La familiarità, dopo tutto, genera disprezzo, e ci sono momenti in cui è possibile sapere troppo».
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