Ex Ilva di Taranto, le opzioni del governo dopo la rottura con ArcelorMittal: commissariamento e ricerca di un nuovo socio
Dopo la rottura della trattativa tra il governo e ArcelorMittal, sono i legali di Palazzo Chigi ora a prendere in mano il fascicolo. Il socio privato franco-indiano si è detto indisponibile a investire ulteriormente nell’Ex Ilva di Taranto, oggi Acciaierie d’Italia (Adi), né come socio di maggioranza né come socio di minoranza. Il piano presentato a dicembre dall’amministratrice delegata Lucia Morselli prevedeva una spesa di 320 milioni di euro ora per pagare i fornitori e far fronte alle spese correnti, e 1 miliardo entro maggio per poter rilevare gli impianti che sono ancora di proprietà di Ilva in amministrazione straordinaria. Il governo proponeva la sottoscrizione di un aumento di capitale di 320 milioni di euro «così da concorrere ad aumentare al 66 per cento la partecipazione del socio pubblico Invitalia». L’impegno di Palazzo Chigi avrebbe garantito la sopravvivenza di Adi per i prossimi mesi, spiega La Stampa oggi, portando Invitalia dal 38 al 66 per cento e ArcelorMittal dal 62 al 34. Il socio privato avrebbe poi dovuto sostenere una parte degli investimenti successivi, seppur da una quota di minoranza, ma si è rifiutato. Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, riunito al tavolo con il ministro dell’Economia Giorgetti, degli Affari europei Fitto, delle Imprese Urso e del Lavoro Calderone, hanno quindi incaricato Invitalia «di assumere le decisioni conseguenti, attraverso il proprio team legale». L’appuntamento con i sindacati è per giovedì 11 gennaio, al quale il socio pubblico dovrebbe presentarsi con una decisone già informata del parere legale. Le opzioni a disposizione non sono molte e c’è il rischio di un lungo contenzioso.
Un nuovo socio?
Per sostenere le ingenti spese di cui l’azienda ha bisogno nell’immediato – 320 milioni di euro per la spesa corrente, 1 miliardo per rilevare gli impianti, ulteriori investimenti per la decarbonizzazione degli altiforni e la messa a norma della struttura – l’opzione più probabile sembra essere quella della commissione straordinaria, l’ennesima nella storia dell’acciaieria tarantina. Invitalia, detenendo oltre il 30 per cento delle quote societarie, potrebbe attivarla invocando l’articolo 2 del decreto 2/2023 relativo agli impianti di interesse strategico nazionale. Poi sarebbero necessari una serie di prestiti ponte per permettere il pagamento delle spese ordinarie, almeno fino all’arrivo di un socio esterno. Il rischio però, e questo Palazzo Chigi lo sa bene, è che ArcelorMittal possa aprire un contenzioso rivendicando gli investimenti fin qui eseguiti, un lungo braccio di ferro legale che potrebbe chiudersi con un oneroso risarcimento. Per questo non vengono escluse altre ipotesi, come la liquidazione volontaria della società con la restituzione degli asset. Invitalia e ArcelorMittal dovrebbero accordarsi su un indennizzo da riconoscere al socio privato, considerando che i patti parasociali prevedono 500 milioni di euro. Oppure ancora, Invitalia potrebbe procedere alla ricapitalizzazione della società fino a maggio, quando scadono gli accordi sugli impianti con la vecchia Ilva, su richiesta del cda di Adi. Ma la gestione rimarrebbe in mano alla multinazionale e verrebbero investiti ulteriori soldi pubblici. Per questo la prima opzione rimane la più probabile. Il governo dovrebbe poi avviare una trattativa a Bruxelles per definire i passi successivi, una procedura che potrebbe durare tra i 6 e i 12 mesi, in attesa che si faccia avanti un nuovo socio disposto a investire nelle acciaierie. Il nome che emerge dalle pagine de La Stampa è quello di Arvedi, che nel 2017 tentò di rilevare l’Ilva. Con 7,5 miliardi di euro di fatturato, 6.600 dipendenti, una capacità produttiva di 6 milioni di tonnellate grazie all’acquisto di Acciai speciali Terni, sembra l’unico attore con le competenze e la forza necessaria a entrare nel piano. Sempre che abbia ancora intenzione di farlo.