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Una scimmia clonata è sopravvissuta per più di 2 anni, la rivoluzionaria ricerca cinese: i possibili sviluppi

16 Gennaio 2024 - 17:18 Redazione
La ricerca permetterà di conoscere più a fondo i meccanismi alla base di diverse malattie e sulla fertilità

Per la prima volta il clone di una scimmia, un macaco rhesus, è nato sano ed è vissuto per oltre due anni, dopo che all’embrione è stata fornita una placenta sana. La ricerca dell’Accademia delle Scienze cinese non segna solo un successo nella clonazione dei primati, ma spiana potenzialmente la strada alla possibilità di ottenere riserve di cellule staminali per ottenere organi in miniatura (organoidi). Utili soprattutto allo studio dei meccanismi alla base dell’infertilità e di molte malattie che colpiscono gli esseri umani. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Nature Communications. E arriva dopo moltissimi esperimenti, coordinati da Zhen Liu e Qiang Sun.

Lo studio

Il processo si basa sul trasferimento nucleare che nel 1997 aveva portato all’annuncio della nascita della pecora Dolly (il primo clone di un mammifero), ma che ha l’ambizione di perfezionarne la tecnica. Ed essenzialmente funziona così: il nucleo di una cellula adulta, ovvero la struttura che racchiude il Dna, viene trasferito dentro un ovocita svuotato del suo nucleo. Così, si punta a provocare il regresso della cellula, fino al raggiungimento di uno stadio molto primitivo e indifferenziato. Al punto che se viene trasferita in utero è in grado di dare origine a un embrione. Nonostante la tecnica negli ultimi decenni si sia rivelata molto efficace per la clonazione di molte specie di mammifere, le scimmie – e soprattutto i macachi rhesus – si sono sempre distinte. Finora, infatti, era capitato una sola volta che un embrione sopravvivesse alla nascita per qualche ora.

Il punto debole

I ricercatori dell’Accademia Cinese delle Scienze, adesso, hanno capito il motivo, il punto debole: lo sviluppo della placenta. Conclusione arrivata dopo il confronto tra le caratteristiche genetiche degli embrioni di scimmia a uno stadio primitivo di sviluppo (blastocisti), ottenuti con la fecondazione in vitro, e quelli ottenuti per clonazione. Questo ha permesso di evidenziare alcune anomalie nello sviluppo degli embrioni clonati: sia nella trasmissione dell’informazione genetica agli embrioni e alla placenta, sia nelle dimensioni della placenta.

Individuato il problema, si è cercata la soluzione: gli autori della ricerca hanno innanzitutto separato il tessuto embrionale che dà origine all’individuo (chiamato massa cellulare interna) da quello che dà origine alla placenta (trofoblasto) e che non entra in gioco nella formazione dell’embrione. Dopodiché hanno trasferito la massa cellulare interna del clone in un altro embrione, ottenuto con la tecnica della Icsi (che consiste nell’inserire un singolo spermatozoo in un ovocita maturo) e privato delle cellule che danno origine all’embrione. Così, il clone si è ritrovato ad avere una placenta sana.

«Una tappa fondamentale»

«Nonostante questo risultato riguardi un solo clone di scimmia, la nuova tecnica potrebbe rivelarsi vincente per poter clonare i primati in futuro», hanno spiegato i ricercatori. Anche secondo il biologo dello sviluppo Carlo Alberto Redi, presidente del comitato etico della Fondazione Veronesi e membro dell’Accademia dei Lincei, si tratta di una «tappa fondamentale» della medicina rigenerativa. All’ANSA, Redi ha però sottolineato che bisogna «distinguere la tecnica dal prodotto della tecnica», anche perché «nessuno sulla Terra può ragionevolmente pensare di utilizzare questa tecnica ai fini della clonazione umana». Tuttavia, la sua importanza risiede nel fatto che «permette di avere ricadute benefiche nell’uomo e per questo è anche eticamente rilevante».

Non solo genetica

Utilizzare la tecnica «e non proibirla, come purtroppo accade in Italia», avrebbe insomma benefici per diversi ambiti scientifici: dalla comprensione dell’infertilità alla salvaguardia di animali in via di estinzione, alla comprensione di molte malattie mitocondriali. «Mai finora – rileva Redi – sono stati raccolti tanti dati sul periodo dello sviluppo embrionale che precede l’impianto». Basti pensare, ha aggiunto, che «negli esseri umani oltre il 50% delle gravidanze naturali non avvengono a causa del mancato impianto dell’embrione in utero». È insomma la prima volta che viene «dissezionato molecolarmente il preriodo pre-impianto». E che si comprende che «non funzionano le strutture extra-embrionali». In altre parole: «Non si tratta solo di genetica, ma di epigenetica: la chiave non è più la sequenza dei mattoncini del Dna, ma quello che nel corso dello sviluppo embrionale viene scritto sopra i mattoncini».

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