Meno austerity, più investimenti. Il Parlamento europeo chiede modifiche al Patto di Stabilità: ora l’entrata in vigore potrebbe slittare al 2026
L’iter del nuovo Patto di Stabilità europeo procede, ma il percorso sarà ancora lungo e non scontato, con interrogativi crescenti sulla data entro la quale il nuovo quadro di regole per le politiche economiche dei Paesi Ue potrà realmente entrare in vigore. Stamattina il Parlamento europeo ha approvato infatti a larga maggioranza nella plenaria in corso a Strasburgo la sua posizione sul nuovo Patto messo a punto appena prima di Natale dai governi Ue dopo mesi di estenuante negoziato. Ma il negoziato, appunto, continua ora ad un altro livello. Perché la relazione approvata stamattina dal Parlamento, che in materia è co-legislatore e il cui sì va dunque assicurato, è densa e corposa, e prevede significativi emendamenti al testo sfornato a fine dicembre dal Consiglio su una serie di punti di rilevanza politica, non solo tecnica (come spieghiamo sotto). Neanche il tempo di registrare con soddisfazione il via libera in plenaria, dunque, che i rappresentanti delle tre istituzioni europee – Commissione, Consiglio e Parlamento – hanno già preso posto a sedere in un’altra sala del palazzo di Strasburgo per cominciare a studiare distanze e possibili punti d’incontro su una serie di dettagli fondamentali del nuovo quadro: i meccanismi di coordinamento futuro delle politiche economiche tra governi, Commissione ed altri enti coinvolti, il ritmo di rientro da debito pubblico e deficit eccessivi da osservare, lo spazio da lasciare per riforme e investimenti e così via.
Il timore di «sforare» al 2026 e l’appello di Gentiloni
Discussione cruciale e appassionante (forse). Se non fosse che a mancare è il tempo, perché la legislatura europea è vicina alle battute finali (a fine maggio termina il mandato di questo Parlamento europeo e se ne elegge uno nuovo), e soprattutto per poter entrare in vigore dal 2025 l’intero pacchetto dovrebbe già essere pronto in primavera, considerato il nuovo previsto percorso di costruzione “congiunta” dei piani nazionali di bilancio tra governi e Commissione. Non a caso il commissario Ue all’Economia Paolo Gentiloni oggi ha sì accolto con favore il voto del Parlamento, ma ha al contempo lanciato un monito a tutti gli attori coinvolti dai toni ultimativi. Portare a termine questo dossier e fornire chiarezza e prevedibilità alla politica fiscale europea in un momento di gravi crisi globali «è importante e urgente», ha detto Gentiloni in Aula. Poi, parlando con i cronisti, ha declinato ancor più chiaramente il senso del suo appello: «Abbiamo bisogno di un’intesa in poche settimane, serve uno spirito di compromesso da parte di tutti. L’accordo nei triloghi va raggiunto entro la prima metà di febbraio se vogliamo concludere il processo legislativo in questa legislatura». Il rischio concreto di fatto, come ha riconosciuto ieri lo stesso altro responsabile del dossier per la Commissione, Valdis Dombrovskis, è che l’entrata in vigore del nuovo Patto slitti al 1° gennaio 2026, ossi alla programmazione di bilancio con inizio nella primavera del 2025. La Commissione, ha ammesso Dombrovskis, sta ragionando su questo piano B se i negoziati dovessero andare meno rapidamente di quanto sperato. In quel caso sarà necessario che dal cappello degli uffici legali di Bruxelles esca fuori un cilindro in grado di coprire il periodo transitorio in modo da evitare il ritorno anche solo per un anno alle vecchie, odiate regole. Come ciò potrà avvenire, non è ancora affatto chiaro e rischia di diventare materia di ulteriori scontri.
Riduzione del debito, riforme e investimenti: come può cambiare il Patto di Stabilità
Il mandato negoziale è stato approvato stamattina a larga maggioranza, forte di un accordo solido tra i tre principali partiti della “maggioranza Ursula”: Ppe, S&D e Renew Europe. 431 i voti favorevoli, 172 i contrari, 4 le astensioni. Gli emendamenti incidono in maniera significativa sul testo uscito dal Consiglio il 20 dicembre scorso. I deputati vogliono un percorso molto più all’insegna del dialogo tra governi e Commissione di costruzione a braccetto delle politiche economiche e fiscali, anche col coinvolgimento dei Parlamenti nazionali. Il modello è quello adottato sin dal 2021 con l’avvio del piano Next Generation EU da cui sono scaturiti i noti Pnrr di ogni paese. Chiedono poi che si stabiliscano parametri numerici chiari per definire come, quando e di quanto un Paese dovrà eventualmente avviare il suo percorso di riduzione del debito eccessivo. Per Paesi con un rapporto debito/Pil tra il 60 e il 90% il ritmo di riduzione dovrebbe essere di almeno mezzo punto percentuale all’anno in media sul periodo di riferimento (4 o 7 anni); per Paesi con rapporto debito/Pil sopra il 90% (come l’Italia) dell’1%. Ci dovrebbe essere più flessibilità nell’attuazione su almeno due fronti, chiede però ancora il Parlamento europeo: consentendo una maxi-estensione sino ad altri 10 anni di tempo per completare il rientro a una «situazione fiscale sana», da un lato, consentendo deviazioni «eccezionali» dal percorso fissato sino a un periodo di cinque anni qualora ciò sia giustificato dall’obiettivo di operare «investimenti strategici», dall’altro. Disciplina fiscale sì insomma, ma accompagnata da un’attenzione molto maggiore a crescita e flessibilità. Musica per le orecchie del governo Meloni, e verosimilmente di qualsiasi governo italiano. Decisamente meno della Germania e degli altri principali Paesi nordici. Ecco perché i negoziati potrebbero farsi di nuovo ben meno semplici e rapidi di quanto auspicato da Gentiloni.