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«Quel processo è da rifare», l’appello di Saviano con i «mostri di Ponticelli»: la storia dei tre muratori per 27 anni in cella da innocenti

18 Gennaio 2024 - 20:49 Redazione
«La Camorra indirizzò le indagini» racconta lo scrittore che si unisce alla richiesta di riaprire il caso del «massacro di Ponticelli»

Si deve «celebrare un nuovo processo» dice Roberto Saviano che si aggiunge all’appello di Luigi Schiavo, Giuseppe La Rocca e Ciro Imperante, per anni chiamati i «mostri di Ponticelli». I tre avevano 18 anni quel 2 luglio 1983, quando vennero trovare morte in un cantiere due bambine di 7 e 10 anni, Nunzia Munizzi e Barbara Sellini. I loro corpi erano stati martoriati e bruciati. Schiavo, La Rocca e Imperante facevano i carpentieri in quel cantiere e vennero inizialmente chiamati come testimoni. Da quel momento iniziò il loro incubo, tra torture, false testimonianze e pressioni priscologiche. «La camorra indirizzò le indagini – scrive Saviano sui social – per liberare il quartiere di Ponticelli dalla pressione della polizia e, probabilmente, per allontanare i sospetti da loro parenti o da persone a loro vicine. Gli inquirenti, commettendo una serie di errori palesi, sono giunti alla loro colpevolezza e Ciro, Giuseppe e Luigi si sono fatti 27 anni di carcere senza aver mai commesso un crimine».

Le torture e le accuse del pentito

I tre oggi hanno 60 anni. Dopo 27 anni in carcere sono usciti per buona condotta e chiedono che la Commissione Antimafia si interessi al loro caso. «Ancora non mi spiego perché mi sia successo tutto questo – dice La Rocca – Mi hanno distrutto la vita rinchiudendomi senza uno straccio di prova per 27 anni. Sono incazzato e voglio giustizia, non mi fermerò e andrò avanti fino al giorno della mia morte». La Rocca accenna alle torture subite. Entra nel dettaglio Luigi Schiavo: «Durante il mio interrogatorio mi chiusero in una stanza con persona che solo successivamente scoprì che si trattava di un pentito di camorra. Questi mi intimò di confessare un delitto che non avevo commesso, al mio rifiuto partirono i calci, i pugni e le testate di cui ancora oggi porto i segni». Il pentito era Mario Incarnato, camorrista pluriomicida e tra gli accusatori di Enzo Tortora. Le violenze contro Schiavo sono andate avanti in caserma: «Mi hanno ammanettato, denudato e cosparso il corpo di acqua e sale. A quel punto partivano le frustate. Il sale serviva a far bruciare la pelle con il sopraggiungere delle ferite». Tra le prove controverse usate nel processo c’era stato uno straccio sporco di grasso, trovato dentro l’auto di uno dei tre indagati. Quel pezzo di stoffa era stato indicato come un pezzo del vestito di una delle vittime.

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