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L’illusoria colletta degli ebrei italiani per quelli tedeschi, confidando in Mussolini

27 Gennaio 2024 - 21:03 Franco Bechis
Poi le leggi razziali. E la tragica fine del senatore ebreo Morpurgo, dimenticato da tutti

«L’ora è tragica come non mai!». Era il 28 giugno 1933, e la drammatica considerazione è contenuta in una lettera-circolare inviata a tutti gli ebrei italiani dal neonato Comitato di soccorso degli ebrei della Germania. Tre pagine di allarme per le nuove leggi di Adolf Hitler che «pongono tutti gli ebrei nell’impossibilità di vivere». La lettera informava che «tutti gli ebrei e coloro che hanno fra gli antenati delle ultime tre generazioni un ascendente ebreo sono stati licenziati dai loro impieghi, sia governativi che locali; non possono più esercitare l’insegnamento pubblico o privato nelle scuole superiori medie ed elementari; non possono esercitare le professioni, non possono essere assunti in uffici commerciali…». Si proponeva allora una raccolta fondi nella comunità ebraica italiana per aiutare gli ebrei tedeschi ad emigrare in Italia sobbarcandosene i costi: «Date e fate dare ai vostri figli; insegnerete loro in tale modo il sentimento della solidarietà umana e ad amare più intensamente la nostra Patria che tutti i suoi figli tutela, difende e nutrisce».

Il tragico errore di valutazione su Benito Mussolini

La lettera aveva come primo firmatario il capo della comunità ebraica romana, Giuseppe Recanati. E subito dopo la sua c’era la firma dell’allora rabbino capo di Roma, Angelo Sacerdoti, e di molte altre personalità della comunità. Nomi che in parte si troveranno nel drammatico elenco del rastrellamento del Ghetto di Roma del 16 ottobre 1943, altri nella documentazione sugli arresti e deportazioni del 1944. Quella lettera rende oggi evidente il tragico errore di valutazione che la comunità ebraica italiana aveva compiuto su Benito Mussolini e il suo regime che cinque anni dopo avrebbe fatto diventare legge del Regno di Italia le stesse identiche norme razziali varate quell’anno da Hitler. Questa illusione di un’Italia diversa dalla Germania nasceva anche per l’ottimo rapporto che il rabbino capo Sacerdoti aveva fin dall’avvento del fascismo con lo stesso Mussolini. Il primo incontro fra i due il 6 dicembre 1923, con Mussolini che all’uscita del colloquio prese le distanze dai partiti antisemiti di altri paesi. E poi il discorso al Tempio del 4 novembre 1926, quando il rabbino capo rassicurò Mussolini della assoluta fedeltà al regime fascista degli ebrei italiani. Il rabbino capo Sacerdoti sarebbe morto improvvisamente per un’angina nel 1935, senza vedere le leggi razziali di Mussolini, ma già in quell’ultimo anno i rapporti fra la comunità ebraica romana e il fascismo si erano se non incrinati certamente raffreddati dopo una campagna stampa contro il sionismo lanciata da Il Tevere di Telesio Interlandi.

La colletta degli ebrei italiani per quelli tedeschi

Il caso dei 9 senatori ebrei. E dei tre con moglie ebrea

Quando nel novembre 1938 il Parlamento italiano votò la legge 1728 che iniziò la persecuzione degli ebrei italiani, il testo fu approvato all’unanimità alla Camera e con 9 voti contrari al Senato del Regno di Italia, i cui membri erano tutti – come si direbbe oggi – senatori a vita: lo erano di diritto tutti i principi di casa Savoia, mentre tutti gli altri erano di designazione del Re. Il voto era segreto, e quindi non si seppe chi furono davvero i nove. Nove erano pure i senatori ebrei, e quattro di loro erano iscritti al Pnf, ma nessuno si presentò in aula, limitando a quel gesto simbolico la loro protesta. Erano pochi, e la loro nomina era a vita: non furono fatti decadere. Qualcuno di loro cercò di accedere alle possibilità concesse dalla cosiddetta “discriminazione”, chiedendo di potere essere esclusi dall’applicazione delle leggi razziali per l’adesione al fascismo o per altre condizioni elencate nelle stesse leggi razziali. Stesso appello fecero i tre senatori italiani che avevano una moglie ebrea. Ne resta testimonianza nella lettera privata inviata il 12 febbraio 1941 al “Duce” dal senatore Antonio Mosconi che invocava a Mussolini «un provvedimento che, col parificare ad ariana mia moglie (Flora di Segni, ndr), valga a cancellare fra di noi l’iniziale differenza di razza…». La lettera era accompagnata in calce da un messaggio della moglie: «Accogliete, o Duce, ve ne prego, la domanda di mio marito, la quale è pur anco la mia, perché corrisponde pienamente al profondo sentimento di donna italiana che dalla nascita mi accompagna e mi guida, perché corrisponde altresì all’aspirazione suprema di tutta la mia esistenza…». La richiesta fu esaudita.

La lettera del senatore Mosconi e di sua moglie a Mussolini

La drammatica fine del senatore ebreo Elio Morpurgo, dimenticato da tutti

I senatori erano tutti molto anziani e in gran parte sarebbero morti naturalmente negli anni immediatamente successivi. I nomi dei pochi che restarono furono però inseriti nelle liste degli ebrei consegnati dal fascismo alle Ss. Tutti restarono in clandestinità e non entrarono più in Senato per non correre il rischio di essere presi dai tedeschi. Cosa che accadde a uno solo di loro, il friulano Elio Morpurgo, che a inizio secolo era stato anche sindaco di Udine. A inizio del 1944, malato e divenuto ormai cieco all’età di 86 anni, Morpurgo venne ricoverato all’ospedale civile di Udine. Il 29 febbraio le Ss irruppero nell’ospedale e arrestarono il senatore trasferendolo in prigionia nella risiere di San Sabba. Il 29 marzo successivo Morpurgo fu prelevato da lì, picchiato e trasferito a forza sul convoglio n. 25T, diretto al campo di concentramento di Auschwitz. Secondo la testimonianza di un carabiniere italiano che scortava quel convoglio Morpurgo sarebbe morto lì, poco dopo la partenza, in conseguenza delle botte prese. All’altezza di Salisburgo il suo cadavere sarebbe stato gettato al volo dal treno nelle campagne circostanti e secondo il carabiniere sarebbe stato raccolto per essere poi seppellito nel cimitero di Tarvisio. Questo scrisse, accorato, nel settembre 1944, l’avvocato Gino Luttazzi all’Alto commissario conte Carlo Sforza che aveva appena decretato l’epurazione del povero Morpurgo accusato di avere guidato una commissione del Senato sotto il regime fascista. Grazie a quella lettera il procedimento fu dichiarato estinto come il povero senatore. Il suo corpo però non era a Tarvisio e non fu mai trovato: secondo le ricerche compiute dai suoi discendenti è probabile che fosse stato trasferito alla fine della guerra insieme ai corpi di numerosi altri italiani caduti in Germania nel Sacrario Militare dei Caduti d’Oltremare di Bari.

La pietra d’inciampo di Elio Morpurgo

La memoria che manca all’Italia repubblicana

Mancando documentazione per un tragico errore di memoria dell’Italia repubblicana il nome di Morpurgo sarebbe comparso anche in atti giudiziari contro chi aveva collaborato in qualche modo con il fascismo nell’immediato dopo guerra. E di errori simili purtroppo sono piene anche le cronache di Italia. Anche per fatti meno drammatici. Come quello citato in una lettera del 30 novembre 1947 inviata all’Esattoria comunale di Roma da David Prato, che nel 1937-’38 era stato rabbino capo di Roma (poi fuggito in Israele), funzione ripresa dopo la guerra. «È già la terza volta che si presenta a me un impiegato di codesta Esattoria», scriveva il rabbino Prato, «per esigere da me la riscossione di una tassa dovuta a quanto pare dalla mia figliola. Ripeto per iscritto quanto ho detto all’impiegato: la mia figliuola Laura Prato è stata deportata insieme col marito Piero Chimichi da Firenze nel gennaio del 1944 e scomparsa nell’infame campo di concentramento di Auschwitz. La sua casa di Firenze, a cui ritengo si debba riferire la tassa, è andata completamente distrutta dalle fondamenta. Che cosa si vuole di più? E che cosa si vuole da me e dalle due minorenni orfane rimaste sfornite di tutto? Vogliate prendere atto di quanto sopra senza rinverdire ulteriormente una piaga così dolorosa». Piccolo episodio, che però segnala quella memoria di quel che era accaduto che fin dall’inizio sembrava mancare al nuovo Stato italiano.

David Prato, nel 1937-’38 rabbino capo di Roma

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