Disforia di genere, il lungo e (tortuoso) percorso dei minori in transizione: come funziona
Nella (nostra) società liquida, il genere è variante e fluido. Già a partire dai primi anni di vita, dicono gli esperti. E il confine tra «fuori» e «dentro», tra «sentirsi» e «riconoscersi» ognuno ce l’ha dentro di sé. La condizione caratterizzata da un’incompatibilità tra il sesso assegnato alla nascita e la propria identità di genere prende il nome di incongruenza di genere. Definita anche disforia di genere, nonostante sia un termine – quest’ultimo – che parte della comunità trans non accetta più, può implicare in alcuni casi uno stato di sofferenza. Tale condizione è caratterizzata da fasi: la prima va dai 4 ai 12 anni. Tra i 12 e i 18 scompare in 7-8 casi su 10, ricorda il Fatto Quotidiano. In caso contrario, si passa a quella che viene definita «fase diagnostica estesa». In seguito alla diagnosi di disforia di genere e al consenso dell’adolescente e dei genitori, dovrebbe partire il percorso (lungo e tortuoso).
L’équipe multidisciplinare
Un’equipe multidisciplinare formata da un neuropsichiatra dell’infanzia e dell’adolescenza, un endocrinologo, uno psicologo dell’età evolutiva, inizia la soppressione, che è reversibile, della pubertà con iniezioni di triptorelina (autorizzata nel 2019 da Aifa). L’obiettivo è consentire all’individuo di indagare a fondo la forza e la stabilità della disforia, evitando la sofferenza. Si passa poi alla terapia ormonale, parzialmente reversibile, che non considera però la possibilità che alcune persone abbiano raggiunto un benessere psicofisico tale da non desiderare un percorso farmacologico. Solo dopo la pronuncia di un Tribunale, si arriva – seguendo la legge (obsoleta) 164 del 198, all’intervento chirurgico, irreversibile, di riconversione del sesso. O meglio, di «affermazione del genere» che prevede una sorta di «demolizione» degli organi sessuali e poi un’eventuale «ricostruzione» (falloplastica o vulvo-vaginoplastica).
La legge 164 del 1982
La 164 del 1982 è, però, una legge datata, che non risponde più ai bisogni sociali e personali. All’epoca fu una conquista, ma ora – come avevamo spiegato nell’inchiesta il diritto (negato) di essere transgender, è considerata una normativa condizionata dalla definizione patologica data dalla comunità medica e dal contesto culturale di allora, che causa ogni giorno danni alla dignità e serenità delle persone. Un iter che si fonda su principi e regole che non tengono conto dell’autodeterminazione delle persone trans, né dell’esistenza di persone non binarie che non si riconoscono in uno dei generi sanciti dallo Stato. Una legge, inoltre, superata da tutta Europa, e che ha visto nel 2015 ampliare il proprio raggio di azione grazie alla Cassazione e alla Corte costituzionale che hanno stabilito come l’operazione chirurgica non sia più condizione necessaria per il cambio di sesso.
I 9 centri in Italia
«Bisogna sempre partire dal dramma alla base di una decisione così drastica che può portare fino all’intervento chirurgico. La convinzione di appartenere all’altro sesso è precoce, permanente, senza diventare, però, un’idea di tipo delirante o ossessivo», spiega al Fatto la psicologa Laura Scati. Per l’esperta «l’esito di un’adolescenza transgender – lo confermano anni di ricerche – è difficilmente prevedibile: ci sono casi, in buona parte, che “desistono” e casi che invece “persistono”». Oltre all’ospedale di Careggi a Firenze, specializzato nel trattamento della disforia di genere, e finito nella bufera dopo l’ultima interrogazione parlamentare di Maurizio Gasparri, ci sono soltanto 9 centri. Bari, Bologna, Torino, Trieste, Roma (due), Napoli, Firenze e Torre del Lago. Bologna e Torre del Lago sono consultori, in convenzione con il Sistema sanitario.
L’iter
«Il nostro obiettivo è aiutare il paziente ad affermare la propria identità sessuale, secondo le linee guida dell’associazione mondiale per la salute dei transgender», spiega al giornale Jiska Ristori, psicoterapeuta al Careggi. L’iter della struttura fiorentina tiene conto che gli specialisti che seguono i ragazzi «devono avere il tempo – si legge – insieme ai soggetti coinvolti, di valutare, a volte immaginare, gli sviluppi di un’identità in discussione». È fondamentale valutare se ci si trovi di fronte a un’incongruenza o disforia di genere oppure a un’altra condizione che sposta su quel piano problemi psicologici, esistenziali o familiari di altra origine.
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