Dalla fuga dall’Iran al carcere italiano, la storia di Maysoon Majidi: l’attivista per i diritti delle donne accusata di essere una «scafista»
Il 31 dicembre un’imbarcazione con a bordo circa 100 persone migranti è approdata sulle coste calabre. A bordo del veliero che ha percorso la rotta turca era presente l’attrice e regista curdo-iraniana Maysoon Majidi di 27 anni, fuggita dall’Iran per il timore di essere fermata dalla polizia morale poiché coinvolta nelle proteste contro il regime degli Ayatollah dopo l’uccisione di Mahsa Amini. La procura di Crotone la accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina con l’aggravante «di avere condotto la barca mettendo in pericolo le persone e caratterizzata dal fine del profitto», spiega a Open il suo legale Giancarlo Liberati, che venerdì – dopo circa un mese – è riuscito a parlarle. «Il colloquio è durato un’ora e Majidi è apparsa molto più serena e fiduciosa. Spera di essere sentita quanto prima dal pubblico ministero per chiarire tutti i lati oscuri della vicenda e far emergere la propria estraneità ai fatti», sottolinea. Per gli inquirenti, che ne hanno ottenuto l’arresto, la ventisettenne avrebbe ricoperto il ruolo di «seconda capitana» dell’imbarcazione. Accusa formulata sulla base delle testimonianze di due persone presenti sullo stesso mezzo, ma che stando alle dichiarazioni-video rilasciate dagli stessi al legale dell’attivista «non sono mai state formulate». Ora si trova nel carcere di Castrovillari e rischia fino a 5 anni di reclusione. Per l’avvocato ci sono troppe «cose che non tornano in tutta questa vicenda»: dalle dichiarazioni dei suoi accusatori fino alla traversata della stessa attivista.
Nell’ambito del procedimento penale verranno stabilite le eventuali responsabilità. Nel più ampio dibattito è però necessario constatare una sorta di ambiguità che riguarda il ruolo del cosiddetto scafista (diverso da quella del trafficante). Tutti ricorderanno il monito di Giorgia Meloni dopo il drammatico naufragio di Cutro: «Andremo a cercare gli scafisti in tutto il globo terraqueo», suonava, più o meno, così la minaccia. Il pugno duro dell’esecutivo per contrastare l’immigrazione irregolare prevede infatti pene più severe per chi conduce un’imbarcazione di migranti. Eppure, la stessa definizione di scafista è oggetto di controversia. In questa categoria di persone rientrano molto spesso migranti che hanno poco o nulla a che vedere con le reti criminali internazionali che gestiscono il traffico. Sono al contrario l’anello più debole della catena. Quello, forse, più fragile. Il film di Matteo Garrone, Io Capitano, restituisce un’immagine nitida della complessità del termine. La storia dell’eroe che si fa anti-eroe (non per scelta, per costrizione) una volta approdato sulla terraferma è ormai prassi. «C’è un numero molto elevato di persone rinchiuse in Italia per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina che non possono neppure ricorrere alle misure alternative. Ciò significa che devono fare fino all’ultimo giorno di carcere», specifica Liberati.
Dalle proteste per Amini al carcere di Castrovillari: «Le dichiarazioni mai rilasciate»
«Come donne curde-iraniane siamo sottoposte a un doppia oppressione: poiché curde, perché donne», urlava Maysoon Majidi a Ebril nei giorni caldi delle proteste in Iran dopo l’uccisione della 22enne curda per non aver indossato correttamente l’hijab. A più di un anno da quell’evento, che ha fatto da detonatore di una frustrazione politica, sociale, culturale, l’attivista per i diritti delle donne di Hana human rights organization decide di fuggire dal Kurdistan. Attraverso la rotta jonica – l’unica via accessibile – raggiunge l’Italia. Poi l’approdo sulle coste calabre, la fuga fino alla spiaggia dopo l’incagliamento del veliero vicino alla costa, il ritrovamento in un bosco e, infine, l’arresto. Maysoon Majidi e il turco Ufuk Akturk vengono accusati di essere i «capitani» dell’imbarcazione. «L’attivista è stata riconosciuta da due migranti a bordo dello stesso veliero che l’hanno vista nella zona vicino al timone». In più – viene precisato negli atti – sul suo telefonino sono state ritrovate foto che la ritraggono sul ponte della barca.
Tuttavia, qualcosa non torna: i due testimoni si sono infatti messi in contatto con il difensore di Maysoon Majidi al quale hanno riferito di non avere mai accusato l’attivista. Al contrario, hanno sottolineato di essere stati aiuti dalla ventisettenne durante tutta la traversata. «L’accusa potrebbe essere frutto di un errata interpretazione o errata traduzione delle loro dichiarazioni, che tra le altre cose sono nuovamente pronti a fornire», spiega Liberati. Questa possibilità risulta difficilmente percorribile: «Anche se io decidessi di andare in Germania, le dichiarazioni degli stessi non sarebbero valide come indagini difensive perché non è possibile prendere le dichiarazioni all’estero. Si dovrebbe fare una rogatoria internazionale – continua il legale -. Cosa che richiederebbe tantissimo tempo e che difficilmente i tribunali italiani concedono».
La confessione «dell’unico responsabile», il pagamento del viaggio, la lingua inglese
Ad essere accusata di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina non è solo Majidi. Per gli inquirenti il cosiddetto «primo capitano» sarebbe un turco, Ufuk Akturk. Quest’ultimo «ha confessato di essere l’unico responsabile, escludendo la possibilità che Majidi fosse complice di questo illecito trasporto», spiega l’avvocato. Ma non è stato creduto. Non solo: dagli atti risulta inoltre come l’attivista abbia detto agli investigatori di essere nel mirino della polizia morale in Iran. In fuga dal regime e, per questo, una rifugiata. Un altro elemento che non torna in tutta questa vicenda è legato al fatto che Majidi avrebbe pagato 8.500 dollari (17 mila totali, per lei e suo fratello) per la traversata. Lo testimonia la ricevuta di un money exchange. Non è la prima volta che i due tentano la traversata: la prima, però, non era andata a buon fine. In quell’occasione sono stati infatti truffati di circa 16 mila dollari. «Uno che paga non è ovviamente uno scafista», dice l’avvocato. Oltre alla presunta traduzione travisata, la testimonianza di Akturk e il pagamento della quota per la traversata, vi è un terzo elemento che deve essere preso in considerazione. Majidi parla il curdo iraniano, ma è anche in grado di parlare perfettamente in inglese. «Perché non l’hanno ascoltata in questa seconda lingua, anziché farla testimoniare con un interprete improvvisato di iraniano?». Una delle tante domande di questo caso rimaste – per ora – senza risposta.
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