La notte in cui le star della musica si unirono per l’Africa. Su Netflix la storia segreta dietro a «We Are The World»
«Niente sarà più com’era prima dopo stasera», questa la prima frase che si può ascoltare guardando We Are The World – La notte che ha cambiato il pop, il documentario, disponibile su Netflix, in gara al Sundance Film Festival, di cui tanto si sta parlando negli ultimi giorni e che racconta i dietro le quinte di una delle canzoni pop più importanti della storia. Importante per quello che ha significato, è chiaro, per quello che ha prodotto e, ad oggi possiamo dirlo, soprattutto per come è stata lavorata. Una storia straordinaria che brilla della luce dei suoi interpreti, quelli che per una notte si sono chiamati gli USA for Africa (United Support of Artists for Africa), una manciata dei più conosciuti artisti statunitensi, talmente conosciuti che anche fare i nomi oggi, quasi 40 anni dopo, risulta piuttosto inutile. E poi certo, chiaro, la storia di un impegno clamoroso, come poche iniziative ricordiamo nella storia, di sicuro tra i più iconici nella storia della musica mondiale. Cosa che tra l’altro dovrebbe rimbombare ancor più forte oggi, specie in Italia, un paese infestato da una generazione di artisti che, senza vergogna alcuna, anzi dichiaratamente, non prendono più posizione su nulla, che dribblano la politica come Beep Beep le trappole di Willy il Coyote, ma senza che ci sia niente da ridere. Sì, We Are The World – La notte che ha cambiato il pop parla anche di questo, della connessione tra musica ed impegno civico, riassunta al meglio probabilmente nel cartello che Quincy Jones, comandante di quella nave, uno dei più incredibili personaggi della storia del pop, pretese di appendere all’entrata degli Hollywood’s A&M Studios di Hollywood, mentre aspettava che le star ospiti della cerimonia degli American Music Awards (l’occasione per averli tutti insieme nella stessa città) arrivassero alla spicciolata: «Check Your Ego At The Door», ovvero Lasciate il vostro ego alla porta, non ci sono protagonisti qui ma solo professionisti, musica, impegno, la volontà di fare ciò che si può e ciò che può un musicista è fare musica.
Il come venne realizzata più affascinante del perché
Questo documentario infatti, non fatevi ingannare, non parla del perché, parla del come; parla di un gruppo di persone, star internazionali che vivevano un’esistenza lontana anni luce da quella di comuni mortali che si spogliano degli orpelli dello showbiz più opulento per rimanere solo una voce e un’emozione. È la storia della prima unione in un progetto del genere tra artisti afroamericani, guidati dal mitico Harry Belafonte, attivista di lunga data, e artisti bianchi, tutti uniti; riportati all’ordine prima di cominciare il lavoro da uno splendido discorso di Bob Geldof, appena rientrato dall’Etiopia, in cui tentava di spiegare ad un gruppo di persone ebbre a dismisura di se stesse cosa volesse dire vivere senza nemmeno l’acqua. Si, certo, divertente ascoltare Lionel Richie che racconta della fase creativa a casa di Michael Jackson, quando fu costretto a fuggire impaurito da un enorme serpente che ad un tratto spuntò fuori da una libreria, come è anche mitica la scena in cui queste quarantacinque star assolute, in segno di riconoscenza per quella magnifica esperienza, all’improvviso intonano Banana Boat (Day-O) dinanzi ad un commosso Belafonte. Parliamo, tra gli altri, oltre naturalmente a Lionel Richie e Michael Jackson, di Ray Charles, Bob Dylan (come meme racconteranno in seguito, effettivamente disponibile ma stordito dalla situazione), Billy Joel, Cyndi Lauper, Willie Nelson, Smokey Robinson, Kenny Rogers, Diana Ross, Paul Simon, Bruce Springsteen (che si precipitò a LA dopo l’ultimo concerto di un tour da niente, Born In The USA, infatti la sua resa non fu eccellente), Tina Turner, Dionne Warwick e Stevie Wonder, che fu il motore di questa impresa. Tutti presenti per quell’impresa di una notte, questo era il piano, non era possibile riunire e trattenere un tale parterre per più di una manciata di ore.
Il grande escluso e la notte da non dimenticare
Tutti presenti tranne uno: Prince, che scongiurarono, che tentarono di attirare coinvolgendo la sua batterista, in quel momento in ascesa come solista, e della quale era follemente innamorato. Ma una sola regola fu imposta quella notte a quegli artisti: Check Your Ego At The Door, e Prince, che fino a poche ore prima aveva ritirato quattro American Music Award facendosi scortare da un gigantesco buttafuori perfino sulla strada tra le poltrone della platea e il palco, non riuscì a resistere alla tentazione morettiana dell’assenza; chiamò intorno alle 4 del mattino per offrire un assolo di chitarra, però a patto di registrarlo in una sala a parte, ma Lionel Richie, che è anche l’ideatore del documentario, gli rispose che no, quella notte sarebbero stati tutti insieme. Il documentario è fatto indubbiamente come si deve ma era impossibile restituire l’evidente energia che circolava in quelle ore in quella stanza stracolma delle più geniali menti della storia del pop americano, che ad un certo punto, durante una pausa, cominciano addirittura a concedersi autografi l’un l’altro, perfino loro coscienti che una cosa del genere non si sarebbe mai più ripetuta. Non è un caso dunque che intorno alle 6 del mattino, quando l’incisione è conclusa e tutti lasciano gli studi, Diana Ross, la divina Diana Ross, impietrita, scoppia in lacrime, abbraccia Stevie Wonder e con la voce rotta dal pianto, come quello di una bambina, esclama «Non voglio che finisca». We Are The World non è mai finita, lo sappiamo, ancora oggi produce economia per i popoli dell’Africa in difficoltà, potremmo citare qualche numero ma quello è il dopo, riguarda il perché; ma, ripetiamo, il senso di questo consigliatissimo documentario è capire il come. E dev’essere stata una notte strabiliante.