Draghi dice addio alla globalizzazione: «Ha fallito, il mondo è cambiato. Prepariamoci a nuovi shock e a governi sempre più indebitati»
C’era una volta la globalizzazione, mantra inattaccabile delle élites politiche ed economiche occidentali come via certa per rendere il mondo più integrato, più ricco e più libero. Le picconate delle crisi finanziarie in Occidente prima, del rafforzamento di regimi capitalistici ma autocratici poi, delle guerre degli anni ’20 infine, hanno distrutto quel mito. Le rivolte degli elettori in buona parte dell’Occidente con i successi di Brexit e di tribuni populisti hanno fatto il resto, convincendo anche i più fidi custodi dell’ortodossia liberale a rivedere i fondamentali. A mettere una pietra sopra quel sogno d’inizio millennio è ora anche Mario Draghi, che libero da compiti istituzionali (se non la predisposizione di un rapporto per le istituzioni europee) ha riconosciuto oggi a Washington tutto ciò che è andato storto. «L’apertura dei mercati globali ha reso possibile l’ingresso nell’economia globale di dozzine di paesi, facendo uscire dalla povertà miliardi di persone – 800 milioni solo in Cina negli ultimi 40 anni – e ha prodotto il miglioramento più ampio e veloce degli standard di vita mai visto nella storia», ha ricordato l’ex premier italiano in una conferenza in occasione del conferimento del prestigioso premio alla carriera Paul A. Volcker. Ma, ha continuato Draghi, «contrariamente alle aspettative iniziali, la globalizzazione non solo non è riuscita a diffondere i valori liberali – democrazia e libertà non viaggiano necessariamente insieme a beni e servizi – ma li ha anche indeboliti all’interno dei paesi che ne erano stati i principali sostenitori, finendo anzi per alimentare la crescita di forze che guardavano maggiormente alla dimensione interna. Presso l’opinione pubblica occidentale si è diffusa la percezione che i cittadini fossero coinvolti in una partita falsata, in cui milioni di posti di lavoro venivano spostati altrove mentre i governi e le aziende restavano indifferenti».
Stato di necessità
Conseguenza di questa frustrazione sempre più profonda e diffusa per l’inefficacia della globalizzazione, ha riavvolto il nastro Draghi: «Le persone si aspettavano un uso più attivo della “pratica di governo” – assertività nelle politiche commerciali, protezionismo o redistribuzione che fosse». Ruolo delle politiche pubbliche in campo economico che è poi tornato inevitabilmente ad espandersi anche per altri avvenimenti: la pandemia, in primo luogo, che «ha messo in evidenza i rischi che derivano da catene di approvvigionamento globali estese per beni essenziali come i medicinali e i semiconduttori», spingendo al re-shoring delle industrie strategiche. E poi la guerra di aggressione in Ucraina, che, ha osservato ancora Draghi, «ci ha poi indotto a ripensare non solo a dove acquistiamo beni, ma anche da chi. Ha evidenziato i pericoli di una dipendenza eccessiva, per input essenziali, da partner commerciali grandi e non affidabili che minacciano i nostri valori. Nel frattempo, è aumentata anche l’urgenza di affrontare il cambiamento climatico».
Gli shock che verranno
Il mondo è cambiato, dunque, per le persone comuni e anche per i decisori pubblici, in campo politico ed economico. Che aspettarsi allora per il prossimo futuro? Draghi indica alcune tendenze che potrebbero contraddistinguere i prossimi scenari: «In primo luogo, cambierà la natura degli shock ai quali sono esposte le nostre economie. Negli ultimi trent’anni, i principali fattori di discontinuità nella crescita sono stati rappresentati da shock di domanda, spesso sotto forma di cicli di credito. È probabile che, nella fase di adattamento delle nostre economie a questo nuovo contesto, si presentino shock di offerta negativi più frequenti, più irregolari e anche più ampi». Secondo, in parte in conseguenza del primo, «la politica fiscale sarà chiamata a svolgere un ruolo più significativo, il che significa – a quanto posso aspettarmi – deficit pubblici persistentemente più alti. La politica fiscale sarà chiamata a incrementare gli investimenti pubblici per soddisfare la gamma di nuove esigenze di investimento. I governi dovranno affrontare le disuguaglianze in materia di ricchezza e reddito. E, in un mondo di shock di offerta, è probabile che la politica fiscale si trovi a dover svolgere anche un maggior ruolo di stabilizzazione – un ruolo che in precedenza avevamo attribuito principalmente alla politica monetaria». Infine, guardando ai rapporti tra Paesi che entrano in relazione al contempo economica e geopolitica, prevede l’ex governatore della Bce,
«se è vero che stiamo entrando in un’era di maggiori rivalità geopolitiche e relazioni economiche internazionali più transattive, i modelli di business basati su ampi surplus commerciali potrebbero non essere più sostenibili politicamente».
L’Unione fa la forza
Tutto ciò, ha ricordato ancora Draghi, necessiterà però di un grado persino più elevato di coordinamento tra i governi: «Le richieste di coordinamento tra politiche probabilmente aumenteranno, ed è un qualcosa per cui l’architettura della nostra politica macroeconomica non è progettata. Tuttavia, è importante ricordare che l’indipendenza non deve significare separazione, e le diverse autorità possono unire le forze per aumentare lo spazio politico senza compromettere i rispettivi mandati». Un richiamo ancor più essenziale per l’Europa, la cui Unione resta ancora troppo fragile per affrontare adeguatamente le sfide della nuova epoca. «Anche i più duri isolazionisti in Europa devono rendersi conto che ogni Paese in Europa è troppo piccolo da solo», ha ricordati Draghi. Insistendo nell’attuale congiuntura in particolare sull’urgenza per i Paesi Ue di unire le forze sulla difesa: «C’è un forte bisogno di coordinare le nostre spese sulla difesa per evitare i duplicati e gli sprechi. D’altra parte dobbiamo investire su alcuni settori della difesa e tutto questo è possibile solo con una visione comune della difesa e della politica estera», ha chiosato Draghi a Washington a pochi giorni dall’ultima minaccia di Donald Trump agli alleati europei su un possibile “sganciamento” degli Usa dagli impegni di protezione Nato.
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