La donna più importante della vita di Carlo Verdone: «È stata mia madre Rossana Schiavina»
La donna più importante della vita di Carlo Verdone è stata sua madre Rossana Schiavina. L’attore e regista ne parla oggi in un’intervista al Corriere della Sera. «Figlia del direttore dei Monopoli dei tabacchi, famiglia socialista, suo padre, mio nonno Aldo, era amico di Nenni. Ha amato immensamente mio padre, Mario, studioso e saggista di cinema e assistente di Norberto Bobbio all’università, lontano da lei, solare, spiritosa, emotiva», la descrive lui oggi nel colloquio con Valerio Cappelli. «Papà veniva da una famiglia poverissima; orfano di guerra, sua madre faceva i rammendi per le suore. Si conobbero tramite Cesare Brandi, il critico d’arte. Da sposati i nonni materni gli diedero una stanza nella loro casa in Lungotevere Vallati, dove sono nato (in sala da pranzo, da una levatrice con un cappello a falde larghe che sembrava Mafalda di Savoia) e cresciuto».
La storia
Verdone la ricorda come «perbene, misericordiosa, protettiva. Quando durante la guerra suo padre fu arrestato per le sue idee politiche, mamma andò a Regina Coeli e convinse l’ufficiale tedesco a mettere suo padre ai domiciliari in quanto cardiopatico. Era tosta ma con delle fragilità. Soffrì di attacchi di panico, che ereditai. Cominciarono nel 1978, dopo il debutto in tv con No Stop, e la gente mi riconosceva per strada. Facevo ridere ma non mi ritenevo adeguato per il mondo dello spettacolo». Nel frattempo nel salotto di casa sua «passò tutta l’intellighenzia. Fellini andava pazzo per il risotto, Leonard Bernstein di cui ho la foto mentre Gianna, la mia ex moglie, lo imbocca e lui, come sempre, ha il whiskey in una mano e la sigaretta nell’altra. Ricordo Zeffirelli, Ettore Scola, Bussotti, il direttore Urbini, il violinista Milstein, quel genio di Benedetti Michelangeli che quasi viveva con l’accordatore di pianoforte e interruppe i suoi silenzi per dirci di accordare il nostro. Vittorio De Sica a fine pasto era solito masticare una foglia di pianta cedrina dal terrazzo. Poi c’erano i migliori chirurghi italiani, era il mestiere del fratello di mamma».
Il rock
Poi Verdone parla di una sua passione: «Bombardavo la casa di dischi rock. Mamma diceva: ma come fai a sentire questa musica? Una volta alla settimana la accompagnavo a saldare le spese, ricordo un negoziante ebreo pieno di tic. Mamma mi stimolava a osservare, da lì sono nati i miei personaggi. Andavamo al cimitero, lei sapeva le storie delle famiglie con le tombe vicino a quella dei suoi genitori». E ricorda un suo scherzo terribile: «Annacquai la conserva come fosse sangue, aprii i cassetti, rovesciai il tavolino. Misi la casa sottosopra simulando un furto. Quando i miei tornando dall’Opera aprirono la porta ebbero quasi un mancamento. Ci fu un silenzio catatonico. Uscii fuori e urlai: “È uno scherzo”. Papà mi rincorse agitando la cinta dei pantaloni».
La morte
Verdone racconta anche la sua morte: «A 59 anni, nel 1984. Morì di una orribile malattia nevralgica che comincia con l’insonnia e poi diventa depressione. Piangeva spesso. I medici la presero per depressione ma era la sindrome di Richardson, Steele e Olszewski. Le fu diagnostica in Francia, in Italia non avevano capito nulla. Innesca un decadimento lento e inesorabile del corpo, fino a quando non si riesce a stare in piedi e si fatica ad aprire le palpebre. Ha sofferto per quattro anni, e noi con lei. Papà era distrutto, avrebbe voluto morire». Dopo «non vedevamo l’ora che finisse di soffrire. Papà non parlava più. Ma riuscii subito a reagire, mi dissi che dovevo ricordarla com’era prima della malattia. La sera del funerale a cena cominciammo a ridere degli episodi più lieti, lasciandoci alle spalle il calvario di quei quattro anni».