La Libia non è un porto sicuro: portarci i migranti è un reato. Cosa dice la storica sentenza della Cassazione
La Libia «non è un porto sicuro». Riportare i migranti nel Paese nordafricano costituisce reato di «abbandono in stato di pericolo di persone minori o incapaci e di sbarco e abbandono arbitrario di persone». Sono questi i passaggi chiave di una sentenza della Corte di Cassazione destinata a fare giurisprudenza, dato che mette fuorilegge la prassi ormai stabilita e gli accordi internazionali che prevedono sussidi alla Guardia Costiera libica affinché questa freni i flussi migratori. Obiettivo che nel Paese africano è stato perseguito anche con la violenza. Secondo il codice della navigazione, infatti, le persone soccorse in mare devono subito essere portate in un luogo sicuro. La sentenza è quella con cui arriva la condanna definitiva al comandante del rimorchiatore Asso 28, che a luglio del 2018 soccorse 101 persone vicino a una piattaforma petrolifera del Mediterraneo per poi portarle a Tripoli affidandole a una motovedetta libica.
«Migranti sottoposti a trattamenti inumani e degradanti in Libia»
La violenza che i migranti subiscono in Libia emerge dalla sentenza, dove si legge che questi vengono «sottoposti a trattamenti inumani o degradanti nei centri di detenzione per stranieri». Il respingimento di massa verso un Paese non sicuro è inoltre vietato dalla Convenzione Europea per i diritti umani. La sentenza, quindi, sembra destinata a innescare decine di ricorsi da parte delle Ong umanitarie, che negli anni sono state bloccate e sanzionate quando non hanno rispettato gli ordini della Guardia Costiera libica. Vengono così messe in discussione le decisioni dei governi che dal 2017 hanno rinnovato il memorandum d’intesa con la Libia. Ad essere interessato poterebbe essere anche il Piano Mattei, nella parte tra Italia e Libia.
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