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L’italiana da 15 anni a New York: «La cultura woke mi costringe a scusarmi di essere bianca»

04 Marzo 2024 - 05:29 Redazione
cultura woke bianchi neri
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È arrivata dal Veneto, vuole fare l'assistente sociale. Ma i corsi della Columbia University...

L.T. è una 42enne che lavora negli Stati Uniti dal 2009. Ha un impiego in un’istituzione culturale italo-americana. È arrivata dal Veneto a New York e oggi dice a Federico Rampini, che la intervista per il Corriere della Sera, che oggi stenta a riconoscere l’America: «In Italia mi considero una progressista, perfino radicale. A New York ora devo scusarmi in continuazione per essere bianca, quindi privilegiata e incapace di capire le minoranze etniche. Sono catalogata dalla parte degli oppressori. Passo il mio tempo a camminare sulle uova, a dribblare le regole della cultura woke , qualsiasi cosa dica o faccia può essere condannata come una micro-offesa rivolta contro afroamericani o latinos».

Afroamericani e latinos

L.T. intanto si è iscritta a un Master della Columbia University per diventare assistente sociale: «Ho dovuto scrivere un saggio in cui anticipavo quale sarà il mio impegno nel razzismo anti-black, perché è un dogma che il vero razzismo è solo quello di noi bianchi contro i neri. Sono stata esclusa dal corso a cui ero più interessata, sull’assistenza ai tossicodipendenti, perché i non-bianchi hanno la precedenza. Nella settimana iniziale del Master dedicata all’orientamento dei nuovi iscritti, a noi studenti bianchi è stato chiesto di scusarci con i compagni di corso neri per il razzismo di cui siamo portatori. E devo aggiungere questo dettaglio: perfino una studentessa afroamericana mi si è avvicinata per confessarmi il suo imbarazzo, lei stessa trovava quella situazione mortificante».

White Accountability

La 42enne veneta dice che «ogni due settimane una bianca come me deve partecipare a una riunione di White Accountability (“responsabilità bianca”): due ore con una persona che ci interroga per farci riconoscere le nostre micro-aggressioni verso i neri e chiederci un pentimento». E parla di «un lunghissimo elenco di frasi proibite, perché considerate offensive. Per esempio, non bisogna mai chiedere a un compagno di studi da dove viene: può suonare come un’implicita discriminazione etnica. Guai a chiedere verso quale campo di studi si orienta: se è nero quella parola può evocare una piantagione di cotone dove lavoravano i suoi antenati schiavi, se è di origini messicane un terreno agricolo dove suo nonno era bracciante. Se cadi in una di queste offese, devi dichiararla e chiedere scusa, poi fare un’analisi del privilegio bianco che ti ha indotto in errore».

Potere Razzismo Oppressione Privilegio

Tutti i corsi della Columbia, dice, «devono essere insegnati nell’ottica del Prop: Potere Razzismo Oppressione Privilegio. Io riconosco che un’assistente sociale deve essere informata su tutte le ingiustizie, deve conoscere tutti i fattori di disagio sociale. Ma catalogarci nelle categorie binarie di oppressore/oppresso non aiuta a conoscere la realtà. Un’assistente sociale dovrebbe occuparsi dell’essere umano, non incasellarlo in definizioni ideologiche». L.T. conosce dei neri che si ribellano a questa dittatura ideologica. «Una mia compagna afroamericana è stufa di vedersi rappresentare come un’eterna vittima bisognosa di risarcimenti. Lei dice: così mi viene tolta ogni auto-determinazione, in questa ideologia è escluso che io possa riscattarmi da sola, con le mie capacità e per merito mio».

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