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Dal dietrofront del governo Meloni sull’Iva sugli assorbenti alle petizioni infinite: perché in Italia il ciclo è ancora un tabù

08 Marzo 2024 - 05:56 Ygnazia Cigna
La legge italiana non contempla il congedo mestruale. Solo alcune aziende hanno iniziato a implementarlo in modo autonomo

«Hai le tue cose?». Dicerie, falsi miti, infinite perifrasi per nominarle: le mestruazioni ancora oggi rappresentano un tabù millenario, associato all’impurità, all’irascibilità e all’instabilità emotiva delle donne. Uno stigma che ha trasformato le mestruazioni stesse in un fenomeno invalidante e causa di esclusione da ambiti sociali. Un pregiudizio che affonda le sue radici in secoli di medicina, religione e filosofia che hanno stigmatizzato le mestruazioni. Anche di questo si occupa il Manifesto per la giustizia mestruale, lanciato di recente da WeWorld, un’organizzazione no profit italiana indipendente attiva in 27 Paesi. «Si parla di giustizia perché il ciclo mestruale non è una questione solo personale, ma di salute pubblica, politica e di diritti umani», spiega a Open Martina Albini, ricercatrice esperta sul tema e responsabile del Centro Studi di WeWorld.

Dal linguaggio all’educazione sessuale: il Manifesto per la giustizia mestruale

«Chiamiamole con il loro nome, chiamiamole tutt*» è il primo dei sei punti del manifesto che mira a promuovere la giustizia mestruale in Italia, rivolto alla politica, alle istituzioni e alla società civile. «Il primo passo che possiamo fare tutti è normalizzare le mestruazioni, cominciando a chiamarle con il proprio nome e senza usare perifrasi o espressioni evasive», commenta la ricercatrice Albini. «Quando parliamo di “chiamiamole tutti”, intendiamo la necessità di coinvolgere non solo le persone che hanno le mestruazioni, ma anche coloro che non le hanno: gli uomini», aggiunge. Gli altri punti del manifesto includono: prodotti mestruali gratuiti in tutte le scuole ed edifici pubblici, l’introduzione dell’educazione sessuo-affettiva nelle scuole, l’inclusione della sindrome premestruale e altre patologie legate al ciclo mestruale tra i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) in modo che la loro cura sia garantita dal Servizio Sanitario Nazionale, il congedo mestruale e l’abolizione della Tampon Tax (la tassa sui prodotti mestruali).

Tampon tax sulle montagne russe dei governi

Nel periodo che va dal menarca (la prima mestruazione) alla menopausa, le persone con mestruazioni hanno in media circa 520 cicli mestruali e consumano almeno 12mila assorbenti. Un bene essenziale quest’ultimo, come il resto dei prodotti mestruali, ma tassato come bene di lusso. In Italia, l’Iva sui prodotti mestruali ha subito continui sali e scendi negli ultimi anni. Nel 2022 il governo Draghi l’ha abbassata dal 22% al 10%. L’anno successivo l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni ha ridotto ulteriormente l’Iva dal 10% al 5%. Nel 2024, però, la premier di FdI ha fatto una vera e propria retromarcia riportando nuovamente la tassa al 10%. Un passo indietro che è stato ampiamente contestato, poiché le mestruazioni sono un aspetto naturale e l’accesso a prodotti igienici è essenziale per la salute e il benessere. L’iniziativa popolare, però, non manca. Esempio ne è la petizione Il ciclo è ancora un lusso lanciata su Change.org dall’associazione Onde Rosa che, dopo le 500mila firme raggiunte in quella precedente del 2018, ha già toccato quota 700mila firme (su un milione di obiettivo).

La petizione

«Un anno fa festeggiavamo quella che potevamo considerare una vittoria parziale, ma pur sempre su una vittoria. Poi il governo ha reintrodotto l’Iva su questi prodotti portandola al 10%. Sembra già pazzesco aver festeggiato perché i prodotti per il ciclo mestruale finalmente sembrava non fossero più visti come bene di lusso, bensì di necessità, perché è talmente evidente che dovrebbe essere scontato. E invece non lo è e siamo al punto di partenza», denunciano le attiviste di Onde Rosa. «Petizioni simili ci sono state anche in altri Paesi, come Germania e Regno Unito, racconta a Open Fiamma Goretti, referente per l’Italia di Change.org. «Ma – puntualizza – questa italiana è in assoluto la petizione più firmata al mondo nella piattaforma sul tema della Tampon tax. Il motivo? Negli altri Paesi hanno vinto molto più velocemente perché il governo è intervenuto prima azzerando o riducendo la tassa».

Povertà mestruale

Le difficoltà legate all’acquisto di prodotti mestruali hanno un nome: povertà mestruale. «Si tratta di un concetto che non fa riferimento solo a cause economiche, ma anche agli stigmi socio-culturali e all’assenza dell’educazione alla salute mestruale», spiega Albini di WeWorld. «Lottare contro la povertà mestruale significa occuparsi di tanti fattori: i tabù, gli stereotipi, le difficoltà nella partecipazione alla vita sociale dovuta al fatto di avere le mestruazioni, il fatto di non poter scegliere liberamente per il proprio corpo», aggiunge. In Italia, tuttavia, non esistono dati sulla questione. Quando si parla di povertà mestruale, la situazione cambia in modo vertiginoso a seconda dei Paesi. Se si sposta lo sguardo oltre i confini dell’Occidente, la povertà mestruale riguarda l’accesso limitato a servizi igienici adeguati o la loro pericolosità per la salute e la sicurezza di chi li utilizza, oltre ai problemi legati alla mancanza di acqua.

Congedo mestruale e lavoro maschio-centrico

Ma l’aspetto economico è solo uno dei tanti ostacoli alla normalizzazione della salute mestruale. Attualmente, la legge italiana non contempla il congedo mestruale, ovvero i permessi dal lavoro retribuiti a causa di problemi legati alle mestruazioni. Solo alcune aziende hanno iniziato a implementarlo in modo autonomo. Nonostante ci siano state diverse proposte di legge nel corso degli anni, nessuna è mai stata attuata. Chi si oppone sottolinea che influenzerebbe in modo negativo sugli sforzi fatti per garantire maggiore parità di genere e aumenterebbe il divario di genere perché presenterebbe le donne con mestruazioni come lavoratrici più costose o meno affidabili. Al contrario, chi sostiene la misura ritiene che garantirebbe luoghi di lavoro sensibili alla salute mestruale, contribuendo a normalizzare il dolore mestruale e ad aiutare coloro che soffrono di patologie particolarmente dolorose durante il ciclo, come la vulvodinia o l’endometriosi. Come afferma la ricercatrice Albini, «il modello lavorativo non deve essere maschio-centrico».

Mestruazioni? Non parliamo solo di donne

«Non tutte le donne hanno il ciclo. E non tutte le persone che hanno il ciclo sono donne. Il riferimento esclusivo alle donne quando si discute di questioni legate al ciclo mestruale ignora la diversità di identità di genere e nega l’esperienza di coloro che non si identificano con il genere femminile ma che comunque hanno le mestruazioni», spiega la ricercatrice di WeWorld. «Nel discorso sulla giustizia mestruali vanno inclusi gli uomini transgender, le persone non binarie (coloro che non si identificano nel binarismo di genere, ndr) e intersessuali (chi ha caratteri sessuali non definibili come maschili o femminili, ndr). Se pensiamo anche solo alle pubblicità in tv, non vengono mai rappresentate altre identità al di fuori delle donne. O almeno non nel nostro Paese, mentre in altri sì», incalza Albini. «Inoltre – puntualizza -, l’Italia è assolutamente impreparata a gestire la salute dei corpi trans, le loro specificità e possibili difficoltà. Il tema è ampio e sfaccettato. Penso, ad esempio, anche all’assenza dei bagni neutri. Se un uomo trans – continua la ricercatrice – dovesse andare in bagno a cambiarsi l’assorbente potrebbe aver timore a tirarlo fuori perché costretto a rivelare aspetti della sua identità in modo forzato e sottoporsi a rischi. Sono tutte forme di micro violenza che agiscono nel quotidiano perché viviamo in un contesto che non accetta il corpo mestruato, ancor di più se quel corpo non è conforme alle aspettative della società».

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