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Omicidio Matteuzzi, le motivazioni dell’ergastolo per Giovanni Padovani: «Non fu gelosia ma vendetta»

08 Marzo 2024 - 16:40 Redazione
alessandra matteuzzi
alessandra matteuzzi
Nel dispositivo della sentenza, i giudici della Corte d'Assise di Bologna scrivono che non ci fu alcun «moto d'impeto» e che il 28enne era capace di intendere e di volere

«L’omicidio fu motivato da un irresistibile desiderio di vendetta, uno tra i sentimenti più irragionevoli, eppure imperativi». Così la Corte d’Assise di Bologna ha motivato la condanna all’ergastolo per Giovanni Padovani, nel processo per l’omicidio di Alessandra Matteuzzi. La 57enne fu uccisa il 23 agosto 2022 sotto la sua abitazione durante un’aggressione di una violenza inaudita, con colpi di martello, calci, pugni, persino l’utilizzo di una panchina in ferro. I giudici gli hanno riconosciuto le aggravanti di premeditazione, futili motivi, legame affettivo e stalking. «Improprio», si legge ora nelle motivazioni della sentenza, «attribuire l’omicidio a una insana gelosia dell’imputato, la quale, semmai, costituì il movente del delitto di atti persecutori». Non vi è dubbio, secondo i giudici, che l’uomo abbia premeditato l’omicidio: sia nella sua progettazione, sia nelle sue conseguenze. Nessun «moto d’impeto», si legge, ma una decisione «maturata» e «progressivamente radicata negli intenti dell’omicida» fin da giugno e luglio di quell’anno, che è stata «persino preannunciata nelle confidenze fatte a terzi e alla madre nelle annotazioni sul cellulare, e poi attuata secondo un piano predeterminato, comprensivo della scelta dell’arma da usare e del luogo in cui colpire». Fino all’aggressione in sé, «spinto da una forza irresistibile, ingenerata da un sentimento di rancore e da un senso di frustrazione, a ritornare a Bologna per assassinarla».

La perizia psichiatrica

Un altro passaggio è fondamentale nel dispositivo della sentenza, ossia la valutazione psicologica dell’imputato. Secondo i giudici progettò l’omicidio con estrema lucidità, e qualsiasi tentativo durante il processo di nascondere le sue reali intenzioni è stato una «messa in scena». Nel corso dell’esame dell’aula, Padovani è stato riconosciuto in grado di intendere e di volere da una perizia psichiatrica. «Le bizzarrie comportamentali dell’imputato», scrive la Corte, «talora anche grossolanamente enfatizzate, seguite sovente da prese di posizione invece consapevoli e responsabili, soprattutto negli snodi decisivi del processo, le risultanze dei test, con risposte sbagliate anche alle domande più banali e infine l’asserzione di una tardiva insorgenza di sintomi psicotici, forniscano indicazioni che sembrano coniugarsi tra loro soltanto nella prospettiva di una intenzionale messa in scena dell’imputato». Secondo gli esperti che lo hanno esaminato, l’ex calciatore avrebbe anche simulato in alcuni casi sintomi psicotici. Una messa in scena, secondo la Corte, reiterata durante le dichiarazioni spontanee del 12 febbraio scorso, quando è stata emessa la sentenza e il 28enne affermò: «Ho sentito la parola ergastolo, se voi ritenete che tutto quello che è stato fatto nei mesi precedenti al reato siano cose normali, e non anormali, da una persona che comunque aveva dei disturbi e ha dei disturbi. Se voi pensate che quello che è successo, che un uomo che ammazza una donna con quella ferocia lì sia una cosa normale, c’è da mettersi le mani nei capelli e tirarseli molto forti».

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