Dalla comunità indigena di Querétaro al sogno dell’indipendenza: Juliana e il lavoro (tessile) come emancipazione
Juliana Juan Bruno ha 22 anni. Vive nella comunità indigena di Santiago Mexquititlán, a Querétaro, in Messico. Ha iniziato a ricamare da bambina: i suoi famigliari le hanno insegnato l’arte del tessere. «Cucire mi fa tornare alla mente il tempo trascorso con mia madre. Lei mi ha insegnato tutto quello che so del ricamo», ci racconta. In un futuro non troppo distante sogna di avere un proprio marchio e di vendere le sue creazioni all’estero. «Vorrei che le persone notassero il mio lavoro – dice -, avere un brand e un’attività che sia solo mia per far conoscere i miei lavori a livello nazionale e internazionale». Juliana, che si fa chiamare Juli, è una delle 30 donne dello stato di Querétaro, provenienti da comunità autoctone, coinvolte nel progetto Fashion Expressions: The Stories She Wears del Gruppo Prada e UNFPA, agenzia delle Nazioni Unite per la salute sessuale. Si tratta di madri artigiane che lavorano in piccoli laboratori casalinghi a gestione famigliare che, attraverso un periodo formativo di sei mesi, acquisiscono competenze tecniche, conoscenze di marketing e una più profonda comprensione dei diritti sessuali e riproduttivi.
«Questo progetto mi sta insegnando molto», spiega Juliana. «Ora so calcolare il prezzo delle mie creazioni. È un procedimento complicato, ma sto imparando. E mi hanno anche insegnato – continua – a migliorare le tecniche del ricamo». Juliana si sente, ora, più indipendente, anche a livello economico. E più consapevole. Come madre, come lavoratrice. «Io sono un’artigiana, ma anche una giovane mamma», racconta. «Con quello che ho imparato posso assicurarmi che Alex, mio figlio di 2 anni, possa crescere in un contesto migliore. Anche perché adesso ho appreso le logiche di mercato e posso vendere le mie creazioni e contribuire alle spese famigliari», dice. Suo marito è un agricoltore, «è un ottimo compagno, – afferma – ma voglio aiutarlo anche finanziariamente. Ad esempio nell’acquisto dei materiali scolastici, le uniformi, i libri. E vorrei che nostro figlio possa sentirsi amato, accudito e sostenuto».
Il diritto alla salute sessuale e riproduttiva in Messico
L’obiettivo è dunque conquistare una sorta di diritto alla professionalità. Ma anche una piena consapevolezza di se stesse e dei propri diritti. «Abbiamo trovato un luogo sicuro dove parlare di diritti e di violenza di genere, uno spazio dove condividere le nostre esperienze», ci confida. «Molte giovani donne hanno vissuto o visto forme di abusi anche in casa. Ci hanno insegnato a non tacere – prosegue -, a tirare fuori quello che abbiamo provato e stiamo provando». Anche perché all’interno del villaggio «non esiste una rete che possa aiutare le giovani donne» a uscire dal circuito di violenza e «lo stigma – sottolinea Juli – non ci aiuta a sentirci più forti» e pronte a denunciare. In Messico, le disuguaglianze nell’accesso ai servizi di salute sessuale e riproduttiva sono preoccupanti: il 98,7% delle donne non scolarizzate non conosce i metodi contraccettivi. È necessario, stando al report dell’UNFPA, rafforzare l’accesso ai servizi sanitari per le vulnerabilità: persone con disabilità, popolazioni indigene, migranti, gay, lesbiche e trans.
«L’epidemia di Hiv/Aids, lo stigma e la discriminazione continuano ad aumentare, in particolare nelle popolazioni più vulnerabili, colpendo gravemente donne e ragazze», si legge nel report delle Nazioni Unite. Per quanto riguarda la mortalità materna, nello Stato dell’America Latina ci sono 18,7 morti ogni 100mila nati vivi stimati nel 2024. Le cause vanno dall’emorragia ostetrica (21,0%) a malattie ipertensiva, edema in gravidanza (12.3%), fino alle complicanze della gravidanza (6,2%). Nel 2023 una sentenza della Corte suprema messicana ha depenalizzato l’aborto a livello nazionale, stabilendo che le leggi federali che vietano le interruzioni volontarie di gravidanza sono incostituzionali e violano i diritti umani. Nonostante l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza, persistono – stando al rapporto dell’Onu – lacune nell’accesso all’aborto, in particolare a livello locale, per le donne indigene e le giovani ragazze.
L’iniziativa con le Nazioni Unite
L’iniziativa Prada-UNFPA è stata lanciata per la prima volta nel 2021 ed è riuscita a coinvolgere 43 partecipanti in Ghana e Kenya, facilitando tirocini e opportunità di impiego in aziende locali. «L’idea è partita da una domanda: come possiamo rendere consapevoli in materia di diritti le donne, soprattutto quelle in condizioni di particolare vulnerabilità, attraverso la moda?», spiega Mariarosa Cutillo, Chief of Strategic Partnerships di UNFPA. D’Altronde emancipazione femminile e moda sono sempre state connesse. Capi d’abbigliamento, sfilate o campagne stampa hanno supportato i maggiori cambiamenti nella società dal punto di vista delle tematiche di genere e della conseguente rappresentazione. «Insieme a Prada – afferma Cutillo -, è stato ideato un pilot inizialmente in due Paesi, in Ghana e Kenya, dove molto spesso le ragazze sono costrette a matrimoni precoci e violenza di genere, e ora stiamo implementando il progetto anche in Messico». Il gruppo di donne, identificate nei tre Paesi dell’Africa e dell’America Latina, «hanno partecipato a un training iniziale e un successivo intership in aziende locali. E molte ragazze hanno avviato un proprio business, oppure sono state assunte dalle società», spiega Cutillo. Il percorso di empowerment economica è stato, infine, integrato attraverso un lavoro di promozione e consapevolezza – portato avanti dalle Nazioni Unite – dei diritti sessuali e riproduttivi, al fine di ridurre le vulnerabilità e le disuguaglianza di genere.
Una partnership tra mondo profit e universo no-profit, che si alimenta e rafforza. «Non possiamo lavorare senza il settore privato – spiega la funzionaria dell’Onu – e questo va ben al di là della questione economica perché l’obiettivo è creare un impatto sulle società». Il settore privato «ci aiuta anche a raggiungere delle audience molto più ampie, è un alleato molto importante per l’innovazione, per le nuove tecnologie, per i nuovi saperi. E ci permette – continua Cutillo – di garantire che ci siano una serie di standard, per quanto riguarda i diritti sessuali e riproduttivi e l’uguaglianza di genere, sul posto di lavoro». Diritti, questi, che molto spesso in Paesi anche socio-economicamente vulnerabili non vengono pienamente rispettati. Una vita sessuale soddisfacente e sicura, l’accesso a informazioni corrette, a metodi contraccettivi sicuri, a strutture e medici preparati in caso di aborto: sono solo alcuni degli elementi indispensabili (e inderogabili) affinché alle donne di tutto il mondo sia garantita la possibilità di scegliere e decidere del proprio corpo. E il loro esercizio è essenziale per il godimento di altri diritti. Ma anche per il raggiungimento degli obiettivi e delle finalità dell’Agenda ONU per lo sviluppo sostenibile 2030, che ha tra i suoi obiettivi l’uguaglianza tra uomini e donne a tutti i livelli di partecipazione. «Il 2030 rimane un po’ la stella polare», afferma Cutillo. E siamo arrivati a un punto «dove dobbiamo spingere un po’ tutti – continua – per essere un po’ più virtuosi. Molto è stato fatto, ma c’è ancora molta strada da fare».
Governi, aziende e società civile
Si tratta di un percorso iniziato 30 anni fa con la Conferenza del Cairo e che oggi l’Onu portato avanti con una prospettiva multi-stakeholder, coinvolgendo, dunque, più attori: governi dei Paesi, settori privati e società civile. «Per l’Onu la società civile è importantissima – afferma Cutillo -. È una società civile che, con i movimenti di giovani, le femministe, che si spende fortemente su questi temi, che si spende fortemente sulla salute sessuale e riproduttiva, che si spende fortemente sull’uguaglianza», afferma. E stabilire rapporti con le comunità locali del Ghana, del Kenya e del Messico permette di avere un effetto moltiplicatore, sia in termini di consapevolezza dei propri diritti, sia in termini di indipendenza economica. «È un elemento importante – ribadisce la funzionaria dell’UNFPA -. L’effetto deve essere diretto sulle partecipanti, ma anche un effetto più ampio sulle comunità. Rendere cioè consapevoli altre persone, allargare le conoscenze. Diventare anche degli attivisti dentro le comunità – continua -. E non limitarsi solo alla popolazione femminile, ma fare in modo che la popolazione maschile anche capisca e si senta coinvolta nei benefici di questo progetto», conclude Cutillo.
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