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Lo scrittore Diego De Silva racconta i suoi due tumori: «Andavo in giro con parrucchino e cappello da baseball»

03 Aprile 2024 - 07:48 Alba Romano
diego de silva tumore vincenzo malinconico
diego de silva tumore vincenzo malinconico
L'ex moglie, la figlia, la scoperta del male: un incubo per me

Lo scrittore Diego De Silva festeggia 60 anni. È conosciuto per i suoi libri come Certi Bambini ma anche per i film della saga di Vincenzo Malinconico, interpretato in tv da Massimiliano Gallo. «Mi sento fortunato: faccio il mestiere che volevo e che so fare, in cui non è facile affermarsi. Per farlo ho cambiato lavoro, prima facevo l’avvocato», dice oggi in un’intervista a Repubblica. Nella quale parla anche della sua ex moglie, con la quale ha avuto una storia «importantissima, è la madre di mia figlia. La cosa più bella che abbiamo fatto insieme, e devo dire che è venuta molto bene». Chiara, 24 anni, ora studia a Bologna: «Stiamo molto bene insieme, è una ragazza simpatica e spiritosa, siamo simili nei gusti e anche nel modo di sfotterci, divertirci. Tra l’altro ho una notizia: mia figlia debutta con un romanzo divertente che si chiama Congiuntivi Sbagliati per Marsilio».

I tumori

Lo scrittore racconta che la figlia gli ha mandato il libro mentre era in treno: «Sono andato in crisi, ho pensato “oddio, mia figlia vuole scrivere e se non è capace dovrò dirglielo e la deluderò”. Poi mi sono fatto coraggio e ho iniziato a leggere. E ridevo con le lacrime. Ho cercato un riscontro, ho inventato un anagramma di Chiara De Silva: Lisa Radaelich, e l’ho mandato in giro, anche alla mia editor. Uscirà l’anno prossimo, e sono molto emozionato. Ma con il suo nome vero. Io avrei preferito l’anagramma». Poi racconta delle sue malattie: «Ho avuto due tumori: il primo a 54 anni, il secondo a 57. La prima volta avevo cercato di dare la notizia il più tardi possibile, e lei mi disse una cosa che non ho mai dimenticato: “Io sono tua figlia, se tu stai male voglio stare male con te”». E ancora: «Quando mi sono accorto di questo linfonodo, come una patatina novella sotto la mascella, mi sono confidato con lei prima di fare tutte le analisi. Per me era un incubo, significava riprecipitare un’altra volta in quel burrone, e non avrei mai voluto dividere questa cosa con lei. Ma sono contento di averlo fatto, perché era quello che mi aveva chiesto».

La malattia di Malinconico

De Silva ha fatto raccontare la malattia al suo personaggio Vincenzo Malinconico: «Esatto, spero di averlo fatto in una maniera contenuta. Ironica, ma spero anche non esibita, un po’ pudica». Questo per lui è importante: «C’è un marketing dei propri drammi. Io ho molto apprezzato la scelta di Martin Amis, della sua malattia sapevano solo tre persone. Ho sentito un’intervista a Umberto Galimberti, la cui moglie non aveva detto nulla perché lavorando all’Università, insegnava Biologia molecolare, temeva venissero sospesi i fondi per la ricerca». E ricorda: «Quando ti ammali ti viene la paura di essere emarginato, escluso da certe cose, di rimetterci sul piano del lavoro. Ti vergogni di essere malato. Questa per esempio è la ragione che mi ha portato a scriverne».

Lo sconcerto

Perché «quando mi sono ammalato ero sconcertato. Il tumore è un male subdolo. Improvvisamente ti trovi in una corsia d’ospedale e dici “ma sta succedendo a me?”. Che è un pensiero cretino, ma ti viene, quasi che ti volessi tirare fuori dalla massa umana toccata da questo dramma. Vincenzo Malinconico è la mia voce interiore, che prende per il culo il Creato, iniziando da se stesso. Così sentivo lui che mi diceva “E perché tu no, che cosa avresti di superiore alla media da non poterti ammalare, razza di imbecille”. E siccome questo dialogo è durato nella testa per almeno una settimana, nonostante avessi in programma un altro romanzo, ho detto “facciamo che Malinconico racconta il tumore e la cura”».

Continuare a lavorare

De Silvia dice di aver continuato a lavorare durante la malattia: «Andavo in giro con il parrucchino e il cappellino da baseball, ho fatto di tutto. Durante le cure ero a terra, ma ho sempre lavorato. E credo sia una fortuna, avere un lavoro che ti dirotta i pensieri, che trasforma la paura, lo sgomento e la preoccupazione. Questo soprattutto è l’arte, trasformazione di dolore e disagi in una forma estetica».

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