In 20 anni le università italiane perderanno oltre 400mila studenti. Dalla corsa alle telematiche alla fuga dal Sud, cosa sta succedendo
Tra meno di 20 anni le università italiane rischiano di subire una perdita di introiti pari a mezzo miliardo di euro. Un declino attribuibile al crollo previsto del numero degli studenti, stimabile a circa 415mila iscrizioni in meno (-21,2%) entro il 2041, complice il calo demografico. Una stangata che avrà maggiore impatto sulle regioni già in difficoltà, in particolare nel Mezzogiorno. È il quadro che emerge da un recente report dell’Area Studi Mediobanca, secondo cui il crollo delle iscrizioni al Sud raggiungerà soglie superiori al 30%, soprattutto in Molise, Basilicata, Puglia e Sardegna. Questo trend di declino nel Mezzogiorno si protrae ormai da anni. Mentre il Sud crolla, il Nord cresce. Nell’ultimo decennio, gli atenei del Sud hanno registrato un calo degli iscritti del 16,7% e nelle isole del 17,1%. Al contrario, si registrano progressi al Nord con il Nord Ovest che ha visto una crescita del 17,2% e al Nord Est del 13,4%. Per contrastare gli effetti del crollo demografico, un fattore determinante è rappresentato dagli studenti stranieri che scelgono le università italiane. Tuttavia, anche in questo caso il Mezzogiorno risulta essere la destinazione meno attrattiva, con solo il 2,5% di iscritti internazionali, rispetto al 7,7% del Centro Italia e al 9,5% del Nord.
Scarsi investimenti: così restiamo indietro rispetto all’Ue
Faticano su più fronti le università italiane, soprattutto quelle tradizionali. Oltre alla spada di Damocle del calo demografico che incombe (anche) sugli atenei, pesano anche gli scarsi investimenti nell’ambito dell’educazione terziaria. In Italia, infatti, la spesa rimane ancora insufficiente, soprattutto se confrontata con altri paesi europei e quelli dell’Ocse. Secondo Mediobanca, in termini di incidenza sul Pil, l’investimento italiano si attesta intorno all’1%, rispetto alla media europea dell’1,3% e all’1,5% dei Paesi Ocse. Sulla stessa scia, sul fronte della spesa pubblica, il nostro 1,5% è al di sotto del 2,3% dell’Unione europea e del 2,7% dell’Ocse. In generale, lo Stato contribuisce al 61% della spesa per l’istruzione universitaria, rispetto al 76% dell’Ue e al 67% dell’Ocse. Il restante viene principalmente sostenuto dalle famiglie, per il 33%, in contrasto con il 14% dell’Ue e il 22% dell’Ocse.
Fondi statali del FFO in soccorso
Nel 2022, le università statali hanno generato proventi pari a 14,3 miliardi di euro, così suddivisi: il 22% da proventi propri (ad esempio, tasse degli studenti o ricavi da ricerca), il 73,4% da contributi, di cui la maggior parte del Ministero dell’Università, e il restante 4,6% da altre fonti di reddito. Tuttavia, è importante notare che dopo l’entrata in vigore della Riforma Gelmini (2010) e fino al 2016, il Fondo di finanziamento dello Stato alle università (il cosiddetto FFO) ha registrato una riduzione, mentre a partire dal 2017 è iniziata una fase di crescita, anche grazie – negli ultimi anni – ai progetti derivanti dal Pnrr, che hanno permesso di far beneficiare di importanti risorse statali aggiuntive. Nel 2022, infatti, il FFO ha raggiunto un valore di 8,656 miliardi di euro, in netto aumento rispetto ai 7,325 miliardi del 2012 (+18,2%).
Il Pnrr ci prova, ma non ci sono posti letti sufficienti
Ma quanto costa agli studenti andare all’università? linea generale, le rette universitarie delle università statali si attestano su una media di 1.374 euro, mentre le telematiche su 2.147 euro e quelle private su 7.447 euro. Chi arriva in soccorso alle università è il Pnrr, soprattutto sul fronte degli studentati, il cui insufficiente numero di posti incide negativamente sulla mobilità degli studenti, soprattutto al Sud. Non è un caso, infatti, che il Pnrr dedichi una voce specifica agli alloggi per gli studenti, destinando 970 milioni di euro con l’obiettivo di aumentare i posti per fuorisede a oltre 100.000 entro il 2026, rispetto alle circa 40mila unità attualmente disponibili. Secondo i dati dell’Anvur, i posti offerti da università, enti pubblici e regioni coprono solo il 9,4% dei fuorisede, percentuale che sale all’11% se si considera anche l’apporto degli enti privati.
Al Sud per ogni studente che arriva, dieci se ne vanno
La disponibilità di posti varia notevolmente da regione a regione. Ad esempio, in Abruzzo, ci sono quasi 90 studenti per ogni posto disponibile. In Basilicata circa 22 e in Molise 20. Si tratta, per di più, di regioni che hanno saldi migratori studenteschi negativi. In regioni come Basilicata, Calabria, Puglia e Sardegna, infatti, per ogni matricola che si iscrive, dieci studenti abbandonano la regione. Ma rapporti molto alti si riscontrano anche in regioni con forte attrattività studentesca, come in Emilia-Romagna (18,1 studenti per posto), Piemonte (10,8), Veneto (10,3) e Lombardia (7,5). Dati che evidenziano la necessità di interventi mirati per garantire, da un lato, la possibilità di scegliere di studiare in un’altra regione e, dall’altro, promuovere la permanenza nel territorio di provenienza per chi lo desidera.
Schizzano le università telematiche: complementari o antagoniste delle tradizionali?
Se da un lato, preoccupano il declino degli studenti, gli investimenti e il persistente divario Nord-Sud, dall’altro emerge il tema della competizione tra diverse tipologie di università. Il sistema universitario del nostro Paese è composto da 61 atenei statali e 31 non statali, questi ultimi suddivisi in 20 tradizionali e 11 telematici. Attualmente, tutti gli atenei statali adottano un approccio tradizionale, ad eccezione della parentesi Covid che ha reso necessario ricorrere per un periodo alla modalità online. Chi pullula di iscritti sono proprio le università telematiche, le quali si trovano, però, a fare i conti con la stretta del governo in termini di standard qualitativi richiesti, soprattutto riguardo al rapporto docenti-studenti e ai tipi di contratti dei professori. Nonostante ciò, in termini di iscritti possono tutt’altro che lamentarsi, considerato che negli ultimi dieci anni sono schizzati del 410,9%. Un incremento che ha permesso loro di aumentare del 112,9% il numero di corsi offerti, del 102,1% il corpo docente e del 131,3% il personale tecnico amministrativo. Il numero di iscritti alle università tradizionali, invece, è rimasto sostanzialmente stabile, senza registrare variazioni significative né in positivo né in negativo.
D’altronde, i vantaggi delle università online, come la possibilità di seguire corsi al di fuori della propria regione riducendo notevolmente i costi e una maggiore accessibilità per i lavoratori, le rendono particolarmente competitive rispetto agli atenei tradizionali, già sofferenti. Non è un caso che il 42,8% degli immatricolati nelle università telematiche sia residente nel Meridione, rispetto al 35,6% degli immatricolati nelle università tradizionali. Chi tiene alto il livello in termini di performance, seppur su un altro fronte, sono proprio gli studenti. Nel 2022, il 77,2% degli studenti era regolare o in corso, in netto miglioramento rispetto al 66,6% del 2012. E a migliorare è anche il voto medio di laurea con cui escono gli studenti, la cui media è passata da 101 su 110 a 104 su 110.
Verso la Programmazione Triennale delle Università
Tuttavia, le telematiche sono sotto torchio dai decreti degli ultimi anni e su cui è in corso una discussione per definire i requisiti minimi, la sostenibilità finanziaria, il rapporto fra docenti a contratto e di ruolo – che al momento è notevolmente sbilanciato verso i primi – e la modalità di erogazione dei corsi. A fronte di questo quadro generale, fondamentale sarà il parere del Consiglio universitario nazionale – previsto per il 9 aprile – sulle linee generali d’Indirizzo della Programmazione Triennale delle Università 2024-2026, la quale fornisce un quadro di insieme all’interno del quale ogni ateneo potrà valorizzare la propria autonomia nelle politiche di internazionalizzazione, offerta formativa, servizi agli studenti e sviluppo delle politiche del personale e della ricerca.
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