Le sfide dei movimenti giovanili in Europa, il politologo Mény: «Spesso poco strutturati, ma hanno sostituito i partiti» – L’intervista
Negli ultimi anni le lotte non-violente per il «diritto al futuro» dei giovani si sono diffuse a macchia d’olio su tutto il territorio d’Europa. Chi si sente minacciato dal cambiamento climatico e pensa che i governi non facciano abbastanza scende in strada. Chi crede che i diritti civili, umani, quelli delle minoranze, il diritto all’istruzione siano stati vìolati si mobilita. Chi pretende un futuro più equo, giusto e pure di pace riempie le piazze. Sono diversi i movimenti giovanili di protesta emersi: qualcuno si è spento, altri sono ancora attivi. E tutti svolgono un ruolo di primo piano nel determinare lo stato di salute di una democrazia. «I governi dovrebbero cambiare l’approccio nei loro confronti: non considerarli più soltanto come gruppi di opposizione, ma includerli negli spazi decisionali e favorirne la partecipazione concreta», spiega a Open il politologo francese Yves Mény, presidente emerito dell’Istituto Universitario Europeo di Firenze e autore del libro Le vie della democrazia, in uscita per il Mulino il prossimo 19 aprile. «Nella tradizione mediterranea, in Grecia, Spagna, Francia e Italia c’è un atteggiamento di rifiuto nei loro confronti – continua -. Mentre nella tradizione anglosassone e nordeuropea, dove la contestazione può essere molto dura, viene dato loro molto più spazio».
Nord vs Sud
I movimenti sociali, a cui aderiscono i giovani, non sono organizzazioni in senso stretto. Si pongono obiettivi che portano molto spesso a rivendicazioni (politiche) e utilizzano strumenti di azione, quali la protesta, per fare pressione sui governanti. Caratteristiche, queste, che «hanno qualificato in tutti i periodi storici i movimenti giovanili: c’è sempre stata una capacità di mobilitazione più forte tra i giovani, c’è più entusiasmo, voglia di cambiare le cose», sottolinea Mény. Ma le loro caratteristiche, ciò che li contraddistingue, possono variare da Paese a Paese. «Quelli che nascono negli Stati del Nord tendono ad essere più forti e diversificati rispetto a quelli del Sud», spiega il politologo. «Con questo non voglio dire che non esistono movimenti di protesta, ad esempio, a favore di politiche sul clima adeguate e contro il cambiamento climatico nei Paesi del Sud. Ci sono, certo, ma sono più deboli – continua -. Basti pensare che la maggior parte dei gruppi climatici hanno nomi inglesi (Friday for Future, Extinction Rebellion). L’attivismo climatico è più nordico, che meridionale». Mentre nel Sud Europa «a prevalere sono i movimenti a favore della parità, dei diritti delle donne o contro la violenza di genere. I giovani chiedono che vengano rispettati i cosiddetti diritti civili – spiega -. E da questo punto di vista la Spagna è all’avanguardia: ha sofferto molto il machismo nel passato, ma oggi è al primo posto tra i Paesi che riescono a raccogliere le istanze dei giovani e dare più risposte». Ma non solo: molto spesso ci si trova di fronte a mobilitazioni che riescono a tenere insieme più dimensioni. Pensiamo, ad esempio, al movimento femminista o a quello climatico che al loro interno intersecano più rivendicazioni.
I j’accuse dei giovani e la (non) rappresentanza politica
Oggi l’impegno dei giovani di tutti gli Stati europei «si manifesta, però, meno sul piano della mobilitazione elettorale perché non si sentono a loro agio nelle strutture partitiche – precisa Mény -. Al contrario, trovano invece spazio nei movimenti a scopo specifico come appunto può essere l’ambiente, la parità di genere, i diritti della donne, l’istruzione, la battaglia per gli alloggi studenteschi». Se guardiamo al passato i movimenti giovanili erano strettamente collegati ai partiti politici. Oggi, al contrario, questo legame viene meno. Le strutture partitiche sono sempre meno capaci di rappresentare i diversi j’accuse della società civile più giovane. «La novità, se vogliamo, – afferma il professore – è una sorta di sostituzione dei movimenti ai partiti per quanto riguarda la rivendicazione e la mobilitazione su temi specifici e questo è un elemento positivo per la democrazia». La criticità sta però nel fatto che «i movimenti giovanili sono spesso poco strutturati, a volte passeggeri. In Italia, ad esempio, – continua – il movimento delle Sardine fu un fuoco di paglia. Riuscì a mobilitare tante persone in poco tempo, ma poi si spense. E questo è il problema di molti movimenti: non riescono a mantenere la loro forza nel lungo periodo».
La buona notizia e quella cattiva
La frammentazione della sinistra e il suo non-parlare più ai ceti “deboli” ha aperto spazi poi conquistati dalla destra e ha lasciato campo ai movimenti sociali che si sono trovati a dare voce a chi si sentiva lontano (ed escluso) dai meccanismi partitici. «I movimenti giovanili si posizionano politicamente sia contro la destra, sia contro la sinistra. Storicamente, però, – precisa ancora Mény – sono più vicini ai temi della sinistra. La novità è che vediamo nascere movimenti giovanili che possono essere pericolosi per la democrazia perché sono attratti, al contrario, dalle istanze che cavalca l’estrema destra, come accade in Germania. Sono attratti dal radicalismo o magari si trovano su posizioni anti-immigrazione».
Ciò che occorre tenere bene a mente è che nonostante il posizionamento nello spettro politico, il motore della democrazia è «l’insoddisfazione». Perché «la stessa democrazia è sempre alla ricerca di un ideale che non verrà mai raggiunto», chiosa. E questa situazione porterà inevitabilmente a migliorare (o almeno a provarci) lo stato attuale delle cose. Ma l’eterna frustrazione mette in crisi le strutture classiche delle democrazie? «La brutta notizia è che le democrazie d’Europa sono in crisi – risponde Mény -; la buona notizia è che sono sempre state in crisi perché si è sempre alla ricerca di qualcosa che sia migliore, che sia perfetto. Faccio un esempio: sperare che tutti i cittadini partecipino al dibattito pubblico è un sogno, non è una realtà o sperare che tutti i diritti siano perfettamente garantiti anche questo è un ideale, è un bellissimo ideale, ma sappiamo che ci sono e ci saranno sempre problemi nell’attuazione di questi principi. Quindi l’insoddisfazione spinge i giovani a tentare di migliorare la situazione» e a chiedere alla politica di agire.
Il paradosso della tecnologia
A giocare un ruolo chiave nella diffusione dei contenuti e dei messaggi di questi movimenti giovanili sono state, e lo sono (forse) tuttora, le rivoluzioni tecnologiche. I social network hanno permesso di mobilitare più rapidamente le masse, “responsabilizzarle”, farle sentire parte del cambiamento. Eppure, la rete sociale che si crea al loro interno, per Mény, ha «un effetto paradossale». Ovvero, «siamo in comunicazione in ogni momento della giornata con tutto e tutti, ma nello stesso tempo non c’è una vera e propria aggregazione, se non un’aggregazione di tipo “emotivo” – sottolinea -. L’abbiamo visto tre/quattro anni fa con il movimento dei gilet gialli in Francia». I social, in quel caso, sono riusciti ad organizzare le masse scese in strada, ma il movimento si è concluso in un nulla di fatto «perché non ha saputo esprimere un’ambizione collettiva. Anche perché i gilet jeunes – continua il politologo – rifiutavano categoricamente la rappresentanza. Anzi, era vista come un tradimento e tale rifiuto ha fatto in modo che il movimento non riuscisse a trasformare le proprie istanze in conquiste politiche».
Il paradosso di questa rivoluzione tecnologica è che porta all’isolamento. La comunicazione avviene all’interno della rete soltanto tra persone che hanno le stesse opinioni, non c’è una discussione con chi ha idee diverse dalle proprie. In questi contesto, dunque, le idee simili si consolidano a vicenda, lasciando fuori le opinioni considerate diverse. «E quando, al contrario, si crea una comunicazione, questa – precisa l’esperto – è basata sull’odio, sull’invettiva. La tecnologia avrebbe potuto facilitare l’espressione del voto e delle diverse opinioni. In realtà contribuisce più al narcisismo e all’isolamento, che alla creazione di comunità o movimenti che riescono a durare nel tempo. Invece di promuovere una mobilitazione più organizzata, strutturata, duratura e forte, concorre all’individualismo e a esplosioni brevi di passione».
Le sfide per i movimenti giovanili
Le sfide dei movimenti giovanili sono tante e diversificate. Ma, forse, quella più impellente, quella più urgente, è di riuscire a trovare un punto di contatto tra le proteste che nascono nelle società, portatrici di istanze di fatto politiche, con le istituzioni. È necessario che i governi europei «inizino a vedere questi movimenti sociali, tra cui quelli giovanili, non soltanto come gruppi di opposizione», afferma il politologo. E riuscire ad avere un atteggiamento più collaborativo potrebbe aiutare a risolvere, per certi versi, il grande problema dell’astensionismo. Sempre più giovani scelgono infatti il partito del “non voto” a causa dei malumori verso una classe politica da anni incapace di rappresentare le loro richieste. «La democrazia soffre un po’ dappertutto di una specie di disincanto che si riflette nel comportamento della gente e in particolare dei giovani. Sempre più ragazzi scelgono l’astensionismo per vari motivi. L’immagine che ci restituisce il film di Paola Cortellesi C’è ancora domani, dove si vedono queste donne che in massa vanno a votare, non è più d’attualità – dice Mény -. L’altro elemento che offre una spiegazione di questo disincanto è l’attrazione verso partiti più radicali, più estremi, sia a sinistra che soprattutto – come vediamo in tutta Europa – a destra». A volte, però, è anche necessario scendere a compromessi: «Io scrivo spesso che il popolo non esiste, è un concetto astratto. Esistono le persone, i singoli, che fanno parte di gruppi che hanno interessi diversi e legittimano la propria posizione. Ciò che è difficile è arrivare al cosiddetto compromesso – prosegue -. Certo, ci sono delle cose sulle quale non è possibile, come ad esempio sui diritti fondamentali, sulla dignità e sulla libertà delle persone. Ma su tanti altri temi i compromessi sono necessari. Anche se i giovani sono meno pronti a “compromettersi” perché sono più idealisti».
L’Europa tra 10 anni
«Immaginare l’Europa del 2034 è sfida ardua, benché 10 anni siano pochi per fare previsioni», dice Mény. Ci sono due scenari possibili: uno ottimista, l’altro pessimista. «Nel primo scenario l’Europa, passo dopo passo, diventerà più forte e avrà inventato dei meccanismi democratici nuovi. Già oggi la protezione dei diritti fondamentali, e non solo il diritto all’aborto, è molto più estesa e profonda in Europa che negli Stati Uniti. Questo scenario è quello prudente perché sarà un processo lento e meglio che sia lento perché il problema di tutte le rivoluzioni è che la rivoluzione chiama la contro-rivoluzione», afferma. Secondo scenario, più negativo: «L’Europa si è allargata a 35-36 Stati che sono diventati democratici da pochissimo tempo, che sono diventati Stati-nazione da poco e dunque sono propensi a celebrare la loro nuova sovranità. E c’è il rischio a un certo punto si verifichi il fallimento del progetto europeo. Ma questo scenario sarebbe talmente terribile dal punto di vista delle conseguenze economiche, politiche e pure pacifiche che io preferisco dire che è talmente brutto – conclude Mény – che non può succedere». Ma, purtroppo, non è poi così scontato.
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