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L’inferno di Brandy&Melville: antisemitismo, razzismo e fat-fobia, le accuse al marchio icona degli anni Duemila

Un documentario HBO racconta i presunti abusi compiuti dal fondatore (italiano), e dal suo team, di un brand divenuto popolare in tutto il mondo

Chi è cresciuto negli anni Duemila lo sa: gli adolescenti considerati alla moda avevano un codice di abbigliamento ben definito. Jeans super-skinny o minigonne a balze, vestiti ricoperti di fiorellini, collane a forma di gufo e felpe con il nome di qualche college americano a caso. I marchi che dettavano legge puntavano a evocare lo stile casual delle coste californiane: Abercrombie & Fitch, che al posto di commessi comuni arruolava modelli, o Hollister, con i suoi nebbiosi corridoi, sono solo alcuni esempi di questo trend. Incarnato alla perfezione anche da un altro marchio: Brandy & Melville. Un brand collegato automaticamente a un immaginario a stelle strisce, sponsorizzato da bellissime adolescenti (preferibilmente bionde e magrissime), che impacchettava il sogno americano del nuovo millennio in dozzinali capi d’abbigliamento bramati dalla generazione che si cibava di Tumblr, Facebook e qualche accenno dell’esordiente Instagram. Un successo che ha resistito negli anni, attraversando le generazioni. E che adesso, però, potrebbe essere irrimediabilmente compromesso. Un documentario realizzato da HBO, Brandy Hellville & the Cult of Fast Fashion, ha infatti raccolto una serie di testimonianze riguardo il lato oscuro del marchio, in onda su Sky Documentaries sabato 14 settembre alle 21.5 in streaming in esclusiva su Now.

L’azienda

Le accuse vanno dalla “fat-fobia” all’antisemitismo, passando per presunte condotte inappropriate nei confronti di minori, fino alla denuncia di aggressioni sessuali. La maggior parte delle imputazioni coinvolge il fondatore del marchio, Stephan Marsan, che continua a ricoprire il ruolo di amministratore delegato dell’azienda. Nonostante l’intera estetica di Brandy & Melville abbia uno spiccato sapore californiano, quasi stucchevole, il brand è stato creato in Italia, nel 1994, da Stephan e suo padre Silvio Marsan. Sbarcato negli States solo nel 2009, con un primo negozio a Los Angeles, ha sperimentato presto una vertiginosa ascesa, fino a diventare iconico in tutto il mondo. L’impero però deve adesso far fronte alle esplosive rivelazioni del documentario realizzato dalla pluripremiata regista Eva Orner.

Il documentario

Il prodotto prende le mosse dal reportage di Kate Taylor per Business Insider. E smonta proprio quello che ha reso Brandy & Melville amato e riconoscibile: il prototipo della adolescente magra e spensierata, pronta a portare il suo fisico impeccabile in spiaggia in ogni occasione. Se le commesse erano in grado di incarnare questa immagine bianca e biondissima, hanno raccontato tre ex dipendenti, erano autorizzate a lavorare a contatto con il pubblico. I dipendenti afroamericani sarebbero invece stati relegati a mansioni meno visibili, per esempio nel magazzino. Marsan avrebbe anche chiesto alle dipendenti, anche alle minorenni, di inviargli foto del loro corpo ogni volta che iniziava un turno. Il documentario racconta che se il loro aspetto non gli fosse andato a genio, le avrebbe licenziate.

Le controversie

Non è chiaro che fine facessero le immagini dopo questo controllo regolare. Un ex dipendente ha raccontato che Marsan ne avrebbe salvate alcune in un apposito file. Un altro, che le richieste a volte riguardavano nello specifico «il petto e i piedi». Questo clima avrebbe indotto alcuni lavoratori a precipitare nell’abisso dei disturbi alimentari. E avrebbe pesato anche sui clienti. Nel documentario, infatti, si afferma che Marsan volesse produrre solo taglie molto piccole, per mantenere la clientela «esclusiva». Questo ha avuto conseguenze anche paradossali, come in Cina, dove è diventata virale tra gli adolescenti la cosiddetta «BM Challenge»: perdere abbastanza peso da poter entrare in una minuscola gonna di Brandy & Melville.

La denuncia

C’è anche un ulteriore episodio che viene raccontato: mentre Taylor lavorava al suo pezzo, avrebbe scoperto la denuncia di violenza sessuale sporta da una dipendente di Brandy Melville di 21 anni. All’epoca, la ragazza aveva bisogno di un posto dove soggiornare per qualche tempo. Le venne offerto il «Brandy apartment», un locale a Soho riservato ad alcuni dipendenti selezionati. Dove sarebbero transitati, secondo quanto raccontato da diversi testimoni, uomini di mezza età non meglio identificati, che a volte si fermavano per tutta la notte. La 21enne in questione ha raccontato che uno di questi uomini una sera l’avrebbe invitata a uscire. Ricorda di aver bevuto due drink in quell’occasione, poi il black-out: si sarebbe svegliata nell’appartamento il mattino dopo, nuda.

La chat dei vertici

Prima dello scandalo che in questi giorni sta provocando il documentario, Brandy & Melville si trovò al centro delle polemiche qualche anno fa, quando venne resa nota l’esistenza di una chat chiamata Brandy Melville Gags. Nasceva come un mezzo di comunicazione aziendale, ma sarebbe stata usata spesso per condividere «battute razziste, misogine e antisemite». Tra i messaggi inviati, c’era una foto: ritraeva Marsan mentre indossava un costume da Hitler. Altri messaggi avrebbero incluso foto di Marsan che piegava una maglietta in modo tale che le lettere finissero a comporre il nome del dittatore nazista. L’imprenditore non appare direttamente nel documentario: è stato contattato, ma avrebbe scelto di non rilasciare interviste. Difficile prevedere se, in seguito all’ondata di indignazione che sta montando sui social, sceglierà di intervenire. Così come appare impossibile stimare la misura in cui la macchia del documentario si diffonderà sull’immagine patinata del suo brand.

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