Gaza, parla un medico di Msf: «Drammatico vedere i bimbi rovistare tra le macerie. Proviamo a tamponare, ma senza un cessate il fuoco è insostenibile» – L’intervista
A più di sei mesi dall’inizio dell’offensiva israeliana, nella Striscia di Gaza la situazione umanitaria è al collasso. Il sistema sanitario nell’enclave palestinese non riesce più a rispondere ai bisogni di una popolazione allo stremo. E la devastazione va ben oltre le vittime dei bombardamenti, circa trentamila per il ministero della Sanità della Striscia, e degli attacchi aerei israeliani. Le condizioni di vita, denuncia Medici Senza Frontiere, aumentano infatti il rischio di epidemie, malnutrizione, polmoniti. Sono le cosiddette “morti silenziose”, conseguenza della guerra in corso. Chi è invece riuscito a lasciare i territori al Nord e al centro della Striscia per raggiungere Rafah, sul confine con l’Egitto, è costretto a fare i conti con l’annunciata operazione militare di Tel Aviv. «Le persone sono state sfollate dal Nord e si sono trovate schiacciate in questa zona dell’estremo Sud che inizialmente doveva essere “la zona sicura”, almeno così era stata definita dagli israeliani. Ma oggi non è più così. E nei pronto soccorso della zona centrale della Striscia dove lavoriamo sono arrivate persone ferite, a cui avevano sparato per impedire loro di ritornare al Nord. Questo fa capire come, di fatto, tutto il territorio sia una trappola», racconta a Open il dottore Roberto Scaini, capo-missione di Msf, appena rientrato da Gaza. Nelle ultime ore molti segnali indicano che il negoziato (indiretto) fra Israele ed Hamas potrebbe essere a un punto di svolta. Ma che «domani» si prospetta per i gazawi? «Tra le macerie – sottolinea il medico – è difficile trovare un futuro».
Qual è il bilancio della missione sulla Striscia di Gaza?
«Ciò che pesa di più è che la situazione umanitaria domani sarà peggio di oggi se non si arriva a un cessate il fuoco. È un contesto dove non vedi possibilità di miglioramento, anzi è un deterioramento continuo. E non si può nemmeno dire: “Siamo arrivati al limite” perché il limite è già stato superato da ogni punto di vista. Nella Striscia nessuno entra e nessuno esce. Non puoi scappare. È come trovarsi all’interno di un palazzo che va a fuoco ma non ci sono porte, né finestre. Quindi devi aspettare finché il fuoco non arrivi anche al tuo piano».
Della sua esperienza sul campo c’è qualcosa che ha visto e vissuto che deve essere raccontato?
«La prima volta che sono arrivato all’ospedale di Al-Aqsa ho visto questi sacchi bianchi, arrotolati: lì dentro c’erano pezzi di corpi di persone uccise dall’ultimo bombardamento della giornata. Mi hanno spiegato che stavano aspettando di essere restituiti alle famiglie delle vittime per dar loro una degna sepoltura. E in una struttura come Al-Aqsa, che si trova nella zona centrale della Striscia, arrivano circa 150 morti alla settimana. Ma anche vedere i bambini che rovistano nella spazzatura alla ricerca di qualsiasi qualcosa è veramente drammatico. Purtroppo il numero di donne e bimbi uccisi a Gaza è elevatissimo, molto di più rispetto ad altri contesti di guerra. Inoltre, ad Al-Aqsa abbiamo una struttura per la cura dei feriti nella fase post-acuta: chi arriva nella struttura viene sottoposto a operazione. Poi, però, queste persone hanno bisogno di continue cure e medicazioni. Anche perché molto spesso si tratta di persone, spesso bambini, mutilati. Civili che rimarranno per sempre mutilati, nel corpo e nell’anima».
Qual è stata la parte più difficile della missione?
«Credo che la parte veramente difficile sia essere testimoni di tanta atrocità e tanta disperazione. È la prima volta in 14 anni di missioni in giro per il mondo che mi sono trovato a chiudere gli occhi su ciò che avevo davanti. Non ho una risposta da darmi, ti senti impotente di fronte a tutto questo perché, purtroppo, fare qualcosa in un contesto come oggi è Gaza si avvicina all’utopia. Si prova a tamponare, ma senza un cessate il fuoco è davvero insostenibile. E poi ti senti a un po’ a disagio, tu sai di avere un biglietto di andata e, soprattutto, uno di ritorno. Ciò che è difficile è che quando esci dal territorio vedi che la situazione non è migliorata, anzi è peggiorata in maniera assolutamente drammatica. È difficile trasmettere quello che ho visto, è un carico di umana disperazione».
Qual è la situazione negli ospedali a più di sei mesi dall’inizio dell’offensiva israeliana?
«Dobbiamo precisare che i bisogni medici a causa della guerra sono quintuplicati, soprattutto per quanto riguarda la traumatologia. I bombardamenti a Gaza creano, inoltre, eventi traumatici di massa che si verificano quando arrivano una serie di feriti tutti assieme. E gli ospedali non riescono più a rispondere ai loro bisogni. Ormai al Nord non c’è più nessuna struttura sanitaria agibile, quelle rimaste sono state tutte, in qualche modo, riconvertite in luoghi dove si operano i feriti. Però poi vengono lasciati nei corridoi, neanche nei reparti, perché oltre alla mancanza di spazi non ci sono macchinari, mancano i farmaci e non è possibile prendersi cura adeguatamente di queste persone. E questo soltanto per il capitolo feriti. Poi c’è tutta un’altra questione che riguarda le cosiddette “morti silenziose”».
Cioè?
«Sono quei decessi che non riconduciamo alla guerra ma che, di fatto, sono una conseguenza. Faccio un esempio: alle persone che erano sottoposte a cure oncologiche o procedure salvavita come la dialisi hanno staccato la spina. Si tratta di patologie che se lasciate a se stesse arrivano al loro decorso drammatico in tempi molto brevi. Accanto a loro ci sono poi tutte quelle persone che invece avrebbero bisogno di cure per le patologie croniche, ad esempio il diabete. Non possiamo curare neppure loro, non ci sono medicinali e strutture dove seguirli. Infine, c’è il grande problema della malnutrizione: i livelli di insicurezza pediatrica si stanno impennando e quando un bambino è malnutrito, si ammala di più. E i reparti di pediatria, come anche quelli di ostetricia dove le donne andavano a partorire, sono stati tutti riconvertiti».
E gli ospedali sono diventati un bersaglio?
«Certo, gli ospedali sono diventati un bersaglio degli israeliani. L’ospedale al Shifa, che era il principale nosocomio della Striscia, è stato completamente distrutto. Non solo un’area, ma tutta la struttura. Nell’ospedale di Al-Aqsa è, invece, caduto un missile a 15 metri dal muro. Il risultato di questi attacchi, qualunque sia la motivazione, è che quell’ospedale non esisterà più. E tutte queste morti, per bombardamenti o “silenziose”, aumenteranno. In un territorio dove vivono 2 milioni di persone le persone non avranno più possibilità di essere curate».
Come sta reagendo la popolazione di Gaza?
«Me lo sono chiesto tante volte pure io guardandoli: sono ancora storditi dalla drammaticità e dalla velocità di tutta questa situazione. Vedi queste persone che vagano tra la macerie, che hanno perso tutto e magari vivono in una tenda, o meglio, un telo improvvisato, all’angolo tra due case, all’interno degli ospedali o ammassati dentro le scuole ancora in piedi. Io ho avuto come la sensazione che stessero vivendo il tutto con una sorta di stordimento: ognuno si è dovuto inventare un modo per sopravvivere nella speranza che tutto questo finisca senza, però, chiedersi cosa sarà del loro futuro. Forse ci penseranno dopo, ma anche il “dopo” sarà drammatico. I gazawi vivono la quotidianità, ma tra le macerie è difficile trovare un futuro. Anche nel nostro staff di Msf molti hanno perso figli, genitori, parenti. Non hanno più nessuno, non hanno più una casa. Sono persone che hanno lavorato una vita per costruirsi qualcosa e ora hanno perso tutto. Ed è vero che ora dobbiamo sperare ci sia un cessate il fuoco, ma il domani cosa sarà? Ci sono posti che sono stati rasi al suolo al 90-95 per cento».
Ora con l’annunciata operazione di terra a Rafah, anche la zona che doveva essere “più sicura” di altre non lo è più…
«Questa è veramente una cosa drammatica e lo vedi nei volti dei palestinesi. Le persone sono state sfollate dal Nord e si sono trovate schiacciate in questa zona che inizialmente doveva essere “la zona sicura”, almeno così era stata identificata dagli israeliani. Ma oggi non è più così. E le persone che provano a ritornare a Nord – e lo fanno per un motivo molto semplice, ormai tutto al Nord dell’enclave è distrutto, non c’è più nulla da distruggere, quindi paradossalmente è una zona più sicura – insomma i civili che tornano su con quattro stracci, una borsa con dentro il nulla, vengono colpiti con armi da fuoco dalle truppe israeliane. Nei nostri pronto soccorso della zona centrale della Striscia sono, infatti, arrivate persone ferite, a cui avevano sparato per impedire loro di ritornare al Nord. Questo fa capire come, di fatto, tutto il territorio sia una trappola. E questo fa di Gaza un contesto assolutamente atipico rispetto ad altre guerre. I civili non hanno la possibilità di dire: “lascio tutto e scappo altrove”, non esiste un altrove. E non lo è neppure quello che era stato identificato all’inizio dell’offensiva».
E un’incursione a Rafah quali conseguenze, soprattuto umanitarie, comporterebbe?
«Rafah è l’unica zona dove si sono concentrati anche gli aiuti umanitari, insufficienti per la portata della situazione, tra cui anche quelli di Msf. Un’incursione lì significherebbe spazzare via le uniche possibilità mediche che ci sono; significa che il milione e mezzo di persone che sono rifugiate nel Sud della Striscia non sapranno dove andare. Forse verso la costa o verso il Nord dove tutto è distrutto. Ma anche quest’ultima possibilità è drammatica: è come spostare delle persone in un deserto dove non c’è più alcun servizio. E ciò significa nessun accesso all’acqua potabile e ai bisogni primari. Il punto è che non avranno possibilità di fuga. Anche il mare è completamente chiuso: se i civili provano ad allontanarsi vengono bersagliati».
Perché ha deciso di andare a Gaza?
«Perché non avevo ragioni per non andare, mi è sembrato un imperativo morale. Non so se sarei riuscito a guardarmi allo specchio se non fossi andato».
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