Da Bari a Urbino, sempre più rettori si aumentano lo stipendio. I sindacati insorgono ma un decreto (firmato Draghi) li tutela
Non è il primo e, di certo, non sarà l’ultimo. Il rettore dell’università di Bari, Stefano Bronzini, ha annunciato di volersi aumentare lo stipendio. Dopo il via libera del Consiglio di amministrazione, ha formalmente chiesto al Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef) un incremento del 128% per portare il suo compenso lordo annuo da 71mila a 160mila euro, con anche effetto retroattivo per il 2022. Una mossa che segue quella del collega del Politecnico di Bari, il quale lo scorso dicembre aveva chiesto al Mef un aumento del quadruplo del proprio compenso, suscitando polemiche feroci. Anche il rettore dell’Università di Lecce aveva tentato una simile richiesta, ma poi ha scelto di rinunciarvi a seguito del parere sfavorevole del Senato accademico. A decidere sull’aumento dell’indennità di Bronzini ora spetta al Mef, che dovrà valutare se le condizioni economiche e finanziarie dell’ateneo possono davvero garantire una manovra di questo tipo in sicurezza. Ma dove ha origine questa corsa all’aumento della propria indennità da rettore?
Il decreto del governo Draghi
È del tutto legittima la richiesta dei rettori, poiché si rifà a quanto previsto dal decreto 143 del 23 agosto 2022, emanato dall’allora governo Draghi. Il Dpcm ha regolato i compensi, i gettoni di presenza e ogni altra forma di retribuzione che spetta ai membri degli organi di amministrazione e controllo, sia ordinari che straordinari, degli enti pubblici. L’incremento dell’indennità è determinato da quattro criteri oggettivi stabiliti dal decreto: patrimonio netto, patrimonio attivo, valore prodotto e spesa per il personale. Nel caso delle università, si traduce – ad esempio – nel fatto che l’entità dell’ateneo influenza direttamente il parametro di riferimento. Più è grande la struttura e maggiore sarà l’aumento della retribuzione. Tuttavia, come spiega a Open il sindacalista della Flc Cgil Luca Scacchi, «si tratta di una possibilità e non di un obbligo».
Gli altri atenei e la versione dei rettori: «Tante responsabilità»
La richiesta di aumenti salariali da parte dei rettori si sta ormai allargando a macchia d’olio e vede, infatti, coinvolti diversi atenei come nel caso di Urbino, Cagliari e Macerata. Ma non solo. Nel primo caso, il rettore ha raddoppiato il proprio compenso, portandolo a 121mila euro lordi. Un incremento che ha giustificato sostenendo che le università, «ora considerate aziende», devono adeguare le indennità alle crescenti responsabilità, e che il bilancio è in grado di sostenere tali costi. Stessa motivazione data, d’altronde, anche da Bronzini dell’Università di Bari, secondo cui si tratta di cifre che si adeguano «all’aumento delle responsabilità» che incombono sui rettori. «Io – dichiara – metto la firma su svariati milioni di euro, ho una responsabilità che si estende a tutto il personale, circa 3mila persone, a 42mila studenti, a 700mila metri quadri di strutture, di cui 600mila coperti, agli appalti. Insomma, una complessità enorme». Il fronte sardo, invece, è passato più in sordina alle orecchie dei media. Ma, sempre a gennaio, anche il rettore dell’Università di Cagliari, Francesco Mola – in carica dal 2021 -, ha alzato il proprio compenso da 60mila a 132mila euro. Nel frattempo, il mese scorso, il rettore dell’Università di Macerata, John Mc Court, ha fatto richiesta al Mef affinché la sua indennità passi da circa 60mila euro a poco più di 111mila euro lordi annui.
La furia dei sindacati: «Ricevono già un doppio stipendio»
Questo trend di aumento salariale tra i rettori fa, però, storcere il naso ai sindacati. «Lo troviamo inopportuno e ci lascia stupiti. Siamo in una stagione in cui i salari dei pubblici dipendenti sono bloccati al rinnovo contrattuale del 2019 e non si riescono a coprire gli effetti dell’inflazione reale», è la visione del sindacalista Scacchi. Che ci tiene a mettere in luce una peculiarità della posizione dei rettori rispetto ad altri dirigenti pubblici: «Il rettore non va in aspettativa. Non smette di essere un docente universitario, al massimo può avere una riduzione dei propri carichi didattici, ma non è mai una totale sospensione della didattica. Di conseguenza, mantiene lo stipendio da docente a cui si aggiunge quello da rettore. E, una volta terminato l’incarico di rettore, torna a essere docente».
La lettera al governo caduta nel vuoto
Pertanto, ogni rettore riceve, da un lato, lo stipendio come docente e, dall’altro, un’indennità per la carica elettiva ricoperta. La legge stabilisce un tetto massimo di 240mila euro che possono percepire in tutto. Nei mesi scorsi, il sindacato Gilda-Unams ha sollevato dubbi e preoccupazioni a riguardo, inviando una lettera alla presidenza del Consiglio dei Ministri, al Ministero dell’Università e della Ricerca, al Mef, alla Corte dei Conti e alla Conferenza dei rettori delle università italiane. Nella missiva, oltre a criticare i maxi-incrementi definendoli «aumenti abnormi dannosi per le finanze pubbliche», il sindacato ha chiesto alle istituzioni di accertare che «gli incrementi delle indennità dei rettori, a cui si aggiunge lo stipendio di professore ordinario e gli altri aumenti a carico della finanza pubblica, non superino, come effettivamente parrebbe, il limite di 240mila euro previsto dalle norme vigenti». Al momento, però, non vi è stata ancora alcuna replica pubblica a tali preoccupazioni, e sempre più rettori fanno richiesta di aumentare le loro indennità.