In Evidenza Legge di bilancioOpen ArmsTony Effe
ECONOMIA & LAVOROArmiFinanzaGiancarlo GiorgettiGoverno MeloniMesSpese militariUcrainaUnione europea

Un nuovo Mes per finanziare l’acquisto di armi. Il progetto Ue (con lo zampino di Giorgetti) per «scongelare» centinaia di miliardi per la difesa

06 Maggio 2024 - 16:19 Simone Disegni
Rimasto bloccato dopo il veto dell'Italia, il fondo potrebbe trovare una nuova mission: sostenere il riarmo europeo. Il piano, i negoziati e il percorso (a ostacoli)

Attaccato, vituperato, infine rimasto «monco», il famigerato Meccanismo europeo di stabilità (Mes) potrebbe presto rinascere a nuova vita. Cambiando faccia e missione: da fondo d’emergenza per salvare Paesi dell’Eurozona in grave difficoltà finanziaria, diventerebbe strumento chiave per sostenere lo sforzo bellico dell’Ucraina e/o il riarmo dei Paesi Ue stessi, concedendo loro prestiti a basso costo per acquistare armi. Questo, per lo meno, è il progetto in discussione fin qui «sotterranea» tra le cancellerie europee, secondo quanto hanno riferito molteplici fonti informate a Politico. La testata specializzata in affari Ue sostiene che «figure potenti» della politica continentale stiano spingendo in questa direzione, così da «scongelare» le centinaia di miliardi di euro che il Mes è in grado di mobilitare – di fatto bloccati dopo il veto dell’Italia alla riforma dei suoi Trattati – e contribuire al contempo all’urgente quanto costoso rifornimento degli arsenali europei, in vista oggi del sostegno militare all’Ucraina, domani di altri possibili «colpi di testa» dell’imperialista di Mosca, Vladimir Putin. Lo scenario è effettivamente sul tavolo, anche se le discussioni in merito sono a uno stadio ancora acerbo, confermano fonti informate a Open. A cui risulta – sorpresa aggiuntiva – che tra le «figure potenti» più attive nel disegnare il possibile cambio d’abito del Mes ci sia proprio il ministro dell’Economia italiano, Giancarlo Giorgetti.

Tempi cambiati

Oltre la cortina fumogena del battage politico-mediatico italiano sul «Mes sì, Mes no», lo strumento immaginato dai governi europei nel 2012 – nel pieno della crisi economico-finanziaria causata dal (quasi) crac della Grecia – è in realtà invecchiato in fretta. Funge da prestatore di ultima istanza nel caso di gravi crisi finanziarie in un Paese dell’area euro, così da scongiurare scossoni sistemici nella zona. Nello scorso decennio hanno usufruito dei suoi programmi di assistenza finanziaria, oltre alla Grecia stessa, Spagna, Portogallo, Irlanda e Cipro. In Italia il Mes si è guadagnato via via una pessima fama da quando i partiti più euroscettici (allora, per lo meno) lo hanno messo nel mirino di una violenta campagna che lo ha dipinto quale strumento principe dell’austerità imposta da Bruxelles (Lega e M5s in testa, FdI a ruota). In un decennio però tutto è cambiato, perché sono cambiate le emergenze e le priorità per l’Unione: l’euro è forte e solido, a “coprire le spalle” dei debiti pubblici europei più ingombranti con prestiti e sovvenzioni generosi è arrivato un altro colosso come il Next Generation EU e il rischio di default o anche solo di aggressioni speculative contro uno o più Paesi membri non pare proprio all’ordine del giorno. Di soldi ne servono invece, e tanti, per rispondere alle nuove sfide epocali che l’Ue ha ora di fronte: la crisi climatica con la necessaria transizione ecologica, la produzione autoctona di componenti tecnologiche fondamentali, e appunto il consolidamento dei sistemi di difesa militare – in previsione del possibile sganciamento degli Usa dagli impegni Nato (vedi alla voce Donald Trump) e, in ogni caso, delle minacce più o meno velate di autocrazie sempre più aggressive, Russia in testa.

Chi lavora al nuovo Mes

Poco prima di Natale, dopo mesi di melina e tira e molla, il centrodestra a trazione FdI-Lega fattosi nel frattempo maggioranza non ha potuto far altro che seguire i proclami ripetuti per anni nella (permanente) campagna elettorale e ha votato in Parlamento per bocciare la ratifica del nuovo Trattato Mes, nonostante mesi di pressing di tutte le istituzioni Ue. L’Italia è rimasta così l’unico Paese a bloccare l’entrata in vigore del nuovo Mes, per la delusione di molti partner europei e del Commissario Ue all’Economia Paolo Gentiloni. E anche, paradosso imbarazzante, del ministro dell’Economia Giorgetti, che quel Trattato avrebbe voluto ratificarlo, confessò candidamente il giorno dopo. Il vicesegretario leghista non è però uomo da perdersi nei rimorsi, e deve essersi messo al lavoro coi suoi esperti del Mef per tirare fuori il coniglio dal cappello. Non certo da solo, s’intende. Lo stesso direttore generale del Mes, il lussemburghese Pierre Gramegna, è impegnato ormai da mesi in fitti conciliaboli coi rappresentati dei vari governi europei per tirare fuori il fondo che guida dalle secche in cui s’è incagliato. «Dobbiamo avere immaginazione su come utilizzare quella potenza di fuoco», ha detto apertamente Gramegna a una conferenza della Bei lo scorso febbraio, alludendo al capitale sottoscritto a disposizione del Mes – ma in stallo – di oltre 700 miliardi di euro. «In molti dei Paesi che ho visitato mi hanno chiesto “Cosa potete fare voi come Mes per l’Ucraina?”», ha proseguito, raccontando di aver risposto: «Beh, al momento nulla, possiamo operare solo nei 20 Paesi membri. Ma se i Paesi hanno difficoltà finanziarie o rischiano di perdere l’accesso ai mercati a causa della guerra in Ucraina, perché non studiare ciò che possiamo fare». Concetto ribadito in almeno altre due occasioni pubbliche negli scorsi mesi. Lo stesso Enrico Letta, nel rapporto sul futuro del mercato unico appena consegnato ai leader Ue, ha menzionato la possibilità che il Mes possa concedere prestiti sino a un valore del 2 per cento del Pil di un Paese per spese nel comparto della difesa.

Se son rose (nei cannoni) fioriranno

La scommessa di chi lavora alla nuova veste del Mes è anche quella di rilanciare uno strumento diventato obsoleto, «riacciuffando» l’Italia dall’angolo in cui l’ha di fatto posta la maggioranza di governo Meloni col suo niet di fine dicembre. La domanda che si apre ora è se il nuovo Mes «per la difesa» che così vedrebbe la luce incontrerà davvero maggiori favori di quello ormai obsoleto rimasto in vita. C’è un piano europeo, evidentemente, considerato che ogni modifica al Trattato va approvata all’unanimità dai ministri dell’Economia dei 20 Paesi dell’area euro (il Mes non è tecnicamente un’istituzione Ue, ma un fondo ad hoc istituito tra loro via trattato intergovernativo). E c’è un piano tutto italiano, considerato quanto «calda» sia la questione dell’invio di aiuti miliari all’Ucraina e del riarmo europeo nella campagna elettorale per le Europee 2024 ormai alle porte. Il leader della Lega Matteo Salvini (principale di Giorgetti) non perde occasione quasi quotidiana per intestarsi la battaglia per «un’Europa di pace» contro i leader «guerrafondai» come Emmanuel Macron che vorrebbero «mandare a morire i nostri figli in Ucraina». E lo stesso Pd di Elly Schlein (succeduta proprio a Letta) ha fatto scrivere nero su bianco sui suoi manifesti spuntati negli ultimi giorni in tutta Italia lo slogan «Un’Europa per la pace, non di guerra». E la stessa premier Giorgia Meloni, solidamente pro-Ucraina ma pure ben attenta agli umori dell’elettorato, sa quanto politicamente insidioso sia il tema del riarmo nel pieno di una delicata campagna elettorale. L’ambiziosa missione che silenziosi architetti politici vorrebbero dare al nuovo Mes riuscirà a farsi strada in questo clima?

Foto di copertina: Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti a colloquio con il collega lussemburghese Gilles Roth, il presidente dell’Eurogruppo Paschal Donohoe e il direttore generale del Mes Pierre Gramegna . Bruxelles, 7 dicembre 2023 (ANSA / EPA – O. Hoslet)

Leggi anche:

Articoli di ECONOMIA & LAVORO più letti