«I test d’ingresso discriminano gli studenti con disturbi dell’apprendimento»: la battaglia in tribunale di una studentessa di Torino
Secondo i dati più aggiornati del Ministero dell’Istruzione, in Italia quasi 300mila studenti soffrono di un disturbo specifico dell’apprendimento. Le diagnosi, dal 2010 al 2019, sono quintuplicate, passando dallo 0,9 al 4,9%. Sotto il tetto dell’etichetta DSA ricadono diverse tipologie di disturbi: dislessia, disgrafia, disortografia e discalculia. C’è una legge che tutela chi ne è affetto: la n. 170 dell’8 ottobre 2010. Prevede che gli studenti con DSA abbiano diritto a strumenti didattici e tecnologici specifici, dalle tabelle ai formulari, passando per mappe concettuali e calcolatrici. Il paradosso, però, è che può capitare che al momento dell’iscrizione all’Università questi strumenti di compensazione vengano meno. Ovvero, che di fronte al test d’ingresso gli eventuali DSA dei singoli candidati vengano ignorati, e venga loro preclusa la possibilità di utilizzare gli strumenti di supporto che hanno utilizzato per tutta la loro vita. E questo può incidere in maniera determinante sul percorso degli studenti: possono conseguire punteggi troppo bassi nel test o decidere di prevenire l’umiliazione, non presentandosi e rinunciando a perseguire una determinata carriera. Un’ingiusta discriminazione contro cui una studentessa torinese, classe 2005, ha deciso di far ricorso.
Cosa dice la legge
Come spiega l’avvocato che la assiste, Giorgio Vecchione, il problema risiede in una lacuna applicativa, più che normativa. Oltre alla sopracitata legge del 2010, che cristallizza il diritto degli studenti affetti da DSA a fruire di appositi provvedimenti dispensativi e compensativi (anche per quanto concerne gli esami di Stato e di ammissione all’università), c’è infatti il Decreto Ministeriale n. 5669 del 2011. Che entra più nel dettaglio, stabilendo che gli alunni in questione «potranno beneficiare di un tempo aggiuntivo pari ad un massimo del 30%» per prepararsi alla prova. E offre agli atenei la possibilità di consentire «l’utilizzo di specifici strumenti compensativi quali calcolatrice non scientifica, video-ingranditore o affiancamento di un lettore scelto dall’ateneo». Peccato che, nei fatti, molte Università impediscano di ricorrere a qualsiasi tipo di supporto al momento del test.
La vicenda
Questo è quello che ha portato la diciannovenne torinese, che sta per diplomarsi al liceo classico e ha sempre conseguito ottimi voti, a scegliere di intraprendere la battaglia legale. «Ho scoperto molto tardi di essere dislessica e anche leggermente discalculica», racconta a Open. «È accaduto in seconda liceo, grazie alla mia prof di latino, che ha riconosciuto alcuni sintomi che presentava anche sua figlia, a sua volta dislessica. Quando l’ho scoperto la mia vita è molto cambiata: inizialmente mi vergognavo, ma è stata anche una liberazione», prosegue. La giovane ha già sostenuto il test d’ingresso al Politecnico di Torino, senza avvalersi di schemi o formulari.
L’ateneo ha giustificato questo divieto spiegando che le risposte a molte domande sono contenute negli stessi documenti che la studentessa avrebbe dovuto utilizzare. Il risultato, però, è che ha conseguito un punteggio troppo basso, insufficiente per scegliere il corso di studi che desidera. «Questa chiusura da parte degli atenei mi fa sentire a disagio. Mi hanno consigliato di scegliere corsi meno ambiti così da poter accedere anche con un punteggio basso, ma non lo trovo giusto», commenta ancora. Adesso ha intenzione di provare il test di medicina all’Università di Torino. Un appuntamento che la rende «molto agitata: faccio molto fatica a ricordarmi le formule, o le leggi della chimica». Ha però deciso di giocare d’anticipo, presentando un ricorso al Tar contro l’ateneo e il Ministero dell’Istruzione. La prima udienza è fissata per il prossimo 8 maggio.
Un’ingiusta discriminazione
Le richieste avanzate sono due. Innanzitutto, spiega Vecchione, si richiede di cancellare la parte del decreto ministeriale che restringe il perimetro degli strumenti compensativi a disposizione degli studenti con DSA. La seconda domanda cautelare, invece, risponde all’obiezione sollevata dal Politecnico: se le risposte al test possono essere dedotte dai documenti necessari agli alunni con disturbi dell’apprendimento, allora bisognerebbe che ministero e ateneo riformulassero la prova. L’obiettivo è anche quello di superare un paradosso: l’avvocato spiega che il Politecnico, ad esempio, presta moltissima attenzione agli studenti con DSA per tutta la durata del loro percorso universitario, così come molte altre facoltà. E così come viene fatto anche nelle scuole primarie e secondarie. La lacuna si viene a creare solo in un momento determinante come quello del test, uno spartiacque durante il quale la questione sembra essere ignorata.
I precedenti
Il Tar è stato già chiamato a esprimersi sulla questione. In due sentenze dello stesso tenore, nel 2019 e poi nel 2022, ha specificato che i possibili ausili che gli atenei devono concedere agli studenti affetti da DSA durante il test non devono limitarsi a quelle esplicitamente indicate nel decreto ministeriale del 2011, da intendersi come «una clausola aperta e generale e non un elenco chiuso». La speranza di Vecchione e della sua assistita è che anche questa volta venga riconosciuto il diritto a scegliere il proprio lavoro, rimuovendo gli ostacoli che impediscono la parità e l’uguaglianza tra tutti gli studenti.
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