Il referendum sul Jobs Act non cambia molto. E rende i precari più precari di oggi. Ecco perchè
I quesiti referendari promossi dalla Cgil, noti come i «referendum sul Jobs Act», hanno l’indubbia capacità di accendere forti contrasti tra chi auspica un mercato del lavoro più stabile e chi, invece, si lamenta per l’eccesso di vincoli che ancora frenano il mercato. Basti vedere le prese di posizione di molti leader politici, anche dello stesso schieramento, che si sono spaccati sull’adesione al progetto (Elly Schlein ha deciso di firmare i referendum, altri esponenti del suo partito sono contrari) per capire che questi referendum sono già diventati una bandiera: la lotta al Jobs Act è un tutt’uno con la lotta (o il sostegno) a una certa visione del mercato del lavoro. Il grande potere evocativo dei quesiti appare, tuttavia, figlio di un grande fraintendimento: quei quesiti, anche ove fossero approvati, non avrebbero alcun impatto reale sulla disciplina dei licenziamenti. Per dare sostanza a questa affermazione, vediamo cosa dicono le diverse proposte (teniamo da parte il quesito sugli appalti che, pur toccando un tema importante, non c’entra nulla con i licenziamenti, con il precariato e con il Jobs Act).
Il primo quesito è effettivamente diretto ad abrogare il «contratto a tutele crescenti», la riforma approvata dal Governo Renzi nel 2015 (d.lgs. 23/2015); si legge sul sito della CGIL che questo referendum ha l’obiettivo di «dare a tutte le lavoratrici e tutti i lavoratori il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo». Un obiettivo lecito, seppure discutibile: non è questo il tema che affrontiamo in questa sede. Il problema è che se il quesito referendario avesse successo, portando all’abrogazione della tanto contestata riforma di Renzi, la materia dei licenziamenti resterebbe regolata per tutti dall’art. 18 dello statuto dei lavoratori, che già dal 2012 (con la legge Fornero) è cambiato profondamente.
Nella versione oggi ancora vigente dell’art. 18, la reintegrazione sul posto di lavoro spetta solo in alcuni casi, esattamente come accade nel Jobs Act: addirittura, la tutela risarcitoria per i licenziamenti economici è meno ampia di quella della riforma del 2015 (l’art. 18 limita il risarcimento a 24 mesi, il Jobs Act arriva fino a 36 mensilità), per via degli interventi correttivi fatti dal primo Governo Conte. Restano, tra l’art. 18 e il d.lgs. 23/2015, piccole differenze tecniche sui casi di applicazione della reintegra: tuttavia, negli ultimi anni queste differenze sono state totalmente azzerate dalla giurisprudenza, tanto che ormai i tecnici più attenti ritengono sostanzialmente equiparate le due discipline. Il primo quesito propone, quindi, un’abrogazione che sarebbe totalmente irrilevante: una conseguenza paradossale, che sfugge persino ai difensori più strenui del «contratto a tutele crescenti», che lanciano appelli a «non tornare alla reintegrazione» senza accorgersi che stanno denunciando un rischio inesistente.
Ben più ampio sarebbe l’impatto del secondo quesito referendario, quello relativo ai licenziamenti nelle imprese che non superano i 15 dipendenti: si propone di estendere a queste imprese, nelle quali esiste solo la tutela risarcitoria nel caso di licenziamenti illegittimi, la disciplina ordinaria dell’art. 18. Una richiesta dirompente, che non c’entra nulla con il Jobs Act: la norma che distingue tra piccole e grandi imprese è del 1966 (legge n. 604), nessuno si è mai sognato di abrogarla e, quindi, è quanto meno fantasioso collegarla al Jobs Act.
Anche il terzo quesito, quello sul lavoro a termine, è molto diverso da come viene presentato mediaticamente. Il referendum intende reintrodurre l’obbligo di introdurre per qualsiasi contratto a termine la c.d. causale, la motivazione delle ragioni per cui si usa il contratto. Un obbligo che non esiste più dal 2012 (riforma Fornero), con diverse varianti (il Jobs Act aveva esteso l’esenzione, il Decreto Dignità di Luigi Di Maio e il successivo Decreto lavoro del Governo Meloni hanno fissato paletti diversi e più stringenti): anche qui, il referendum c’entra poco o nulla con il Jobs Act originario. Un quesito presentato come «lotta al precariato» ma che, a ben vedere, avrebbe un effetto ben diverso: limiterebbe, se approvato, i contratti a termine, che fruiscono di tutte le tutele del lavoro subordinato, mentre lascerebbe inalterati i rapporti occasionali, le false partite iva, le co.co.co. irregolari, i contratti pirata. Insomma, una lotta al precariato quanto meno imprecisa e lacunosa…
È un dato incontrovertibile, quindi, che i «referendum sul Jobs Act» usano il Jobs Act come simbolo, come bandiera negativa da sventolare per scaldare i cuori degli elettori, ma parlano di cose diverse da quelle annunciate: ce ne accorgeremmo la mattina dopo la consultazione referendaria, ove mai fossero trovate le firme e raggiunto il quorum). La campagna referendaria conferma come ormai nella comunicazione politica gli slogan hanno preso il sopravvento sull’analisi dei contenuti: un metodo – per una curiosa vendetta della storia, usato a piene mani dallo stesso Renzi quando lanciò questa riforma a suon di slide – che porta benefici di breve periodo ma impedisce di affrontare e risolvere i problemi reali.
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