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In sala «Il segreto di Liberato». Il regista Lettieri: «All’inizio gli facevo da segretario, usiamo un soprannome per chiamarlo» – L’intervista

09 Maggio 2024 - 08:44 Gabriele Fazio
Il regista del documentario da oggi nelle sale: «La sua favola è più importante di un nome e cognome»

Il 9 maggio è arrivato e per molti è il giorno in cui Liberato si manifesta. Da quando è esploso il successo del cantautore napoletano mascherato si è sempre trattato di musica, oggi invece si tratta di un film, un documentario dal titolo Il segreto di Liberato. No, non si tratta della sua identità, sarebbe stato semplice e anche banale, due concetti impossibili da attribuire a Liberato, perché la sua avventura è unica. Il film spiega il vero segreto dell’artista, quello che si cela dietro la composizione della sua musica e non dietro alla sua maschera, che alla fine a pensarci bene nasconde solo un nome e un cognome e non quella meravigliosa e poetica narrativa cool che ha conquistato un pubblico vastissimo. Per parlare del film abbiamo intervistato il regista, Francesco Lettieri, che è parte integrante del progetto Liberato, è colui che ha creato l’immaginario visivo dietro il progetto dandogli la forma che poi noi, lato pubblico, conosciamo e non possiamo fare altro che ammirare.

Partiamo dalla base: chi è Liberato?

«Liberato è un musicista, un cantautore…in realtà non so definirlo neanche io bene. Un cantante anonimo è la definizione da wikipedia, da Treccani, poi in realtà le risposte possono essere tante, perché l’elemento dell’anonimato apre tanti scenari e tanta curiosità. In realtà Liberato è un contenitore di sogni, il fatto che non si sappia la sua identità, che non si conosca il suo volto, fa sì che ognuno lo completi con quello che vuole. Ogni persona lo può vedere come un cantante, come un ragazzino, come un uomo adulto, come un anziano, come un napoletano. C’è poi chi lo vuole vedere milanese, c’è chi lo vuole vedere come uno sfigato che utilizza il marketing per diventare famoso. E ancora chi lo vede come un profeta, ognuno ci proietta quello che vuole e in qualche modo questo lo rende diverso da tutti gli altri».

Qual è il segreto di Liberato per te che lo hai dovuto raccontare?

«Il segreto di Liberato è esattamente il contrario del segreto di Pulcinella. Quello di Pulcinella tutti lo conoscono ma fanno finta di non conoscerlo, al contrario quello di Liberato tutti pensano di conoscerlo ma in realtà non lo conosce nessuno. Ognuno ha la sua teoria su chi sia, ognuno ha la sua sicurezza. Io che vivo questo progetto dall’interno da tanti anni, ho seguito tutte le teorie che ci sono state, da quelle più verosimili a quelle più assurde, e una delle cose più incredibili è che ci sono persone che una volta che hanno deciso la loro verità poi quella è rimasta, nonostante sia stata confutata, nonostante sia assurda. Per dire, siamo andati a Poggioreale per un live e tutte le guardie carcerarie erano convinte di conoscerlo, «Lui stava a Nisida, io lavoravo lì e ho capito chi è». Quella è una delle teorie più assurde, Liberato carcerato che dal carcere fa i video, fa le canzoni e poi fa i concerti a Milano, oppure quella di Livio Cori, che è stato uno dei primi nomi che si è fatto e lui ha dovuto fare delle dirette live durante il concerto di Liberato per dare la prova di non esserlo e comunque le persone non ci hanno creduto. Fondamentalmente ognuno c’ha la sua verità e questo ha permesso al suo segreto di continuare a esserci, perché se tu sei convinto di una cosa e io sono convinto di una cosa, alla fine non c’è mai la verità. Anche se c’è una teoria verosimile alla fine, in mezzo a tutte le altre, diventa una delle tante».

In questo senso ci sono delle ipotesi sull’identità di Liberato più plausibili di altre?

«Ce ne sono sicuramente di più plausibili, non ci sono teorie che arrivano alla verità. Alcune sono state argomentate meglio, ma la cosa interessante è che sono quelle meno battute. Qualcuno ha fatto delle indagini più approfondite, è andato a cercare di incastrare Liberato, ma poi alla fine questa cosa qui in realtà non ha interessato veramente, non ha tenuto banco nella discussione, tengono banco più le teorie assurde. In realtà le persone vogliono sognare, vogliono una favola, vogliono un racconto, vogliono un mito e questo è più interessante del nome e cognome di Liberato».

L’idea del film nasce dal progetto in sé, dalla storia che avevate per le mani o dalla voglia di Liberato di raccontarsi?

«In realtà è nato tutto dal caso, come tutte le cose che riguardano Liberato, molto spesso dipendono dall’occasione che si presenta. È capitato in questi anni che sono arrivate tante proposte di documentari, anche subito, quando è esploso il fenomeno, sono arrivati come spesso succede, per il libro, per il documentario, il film, le patatine, le figurine…fortunatamente lì c’è stata la lungimiranza di rinunciare a tutto per non bruciarsi, per non vendersi tutto subito. Quando è arrivata la proposta di questo documentario era l’ennesima proposta che ci facevano e l’abbiamo rifiutata come tutte le altre, poi ad un certo punto parlando di quello che avremmo dovuto fare dal punto di vista video per le fasi successive, è uscita un’idea che c’era da tanto tempo: fare qualcosa con l’animazione, con lo stile anime giapponese, che era l’unica cosa che non c’era riuscita di fare, quindi la nostra controproposta è stata “Ok, facciamo il documentario ma facciamolo d’animazione” e per la prima volta c’è stato detto subito si. Da lì è partito tutto, abbiamo contattato Lorenzo Ciccotti che è l’unico capace di fare questo lavoro in Italia con un alto livello di qualità: ha svolto un lavoro enorme e quasi pioneristico».

Il film racconta anche le origini di Liberato ed è un Liberato anche abbastanza insicuro delle sue capacità… Tu hai immediatamente riconosciuto le sue capacità, più o meno come tutti, ma lui? Ci credeva? Si sarebbe mai aspettato tutto questo?

«Credo che ognuno abbia il suo percorso, ora magari ci sono i talent e questo percorso viene racchiuso in un unico momento, ma quello di Liberato è una storia classica per tutti gli artisti che cercano il loro modo di fare musica. Secondo me lui, avendo costruito questo personaggio anonimo, fantasioso, ha trovato questa sicurezza. Conoscendolo, vedendolo anche fuori dalle vesti di Liberato, credo che lui sia una persona normale, una persona qualunque, poi quando si mette la maschera di Liberato, diventa un supereroe convinto di quello che sta facendo e che ha probabilmente anche il coraggio di fare cose che non farebbe altrimenti. Per esempio, dal punto di vista musicale, il fatto che giochi con la tradizione partenopea, la taranta, la tarantella, è una cosa che un musicista napoletano con nome e cognome ci penserebbe un attimo prima di ergersi a prosecutore della tradizione, con la maschera per lui è tutto più facile, tutto più un gioco. C’è tutta una serie di paranoie che lui non si fa avendo la maschera».

Che tu sappia lui è mai cascato nella tentazione della fama?

«Secondo me no. Molti non considerano che lui con l’anonimato si sta precludendo tante cose, anche solo il successo con le ragazze o i ragazzi. Tutto il desiderio comune che c’è nell’essere famoso, lui non se lo vive. Io, che grazie a lui ho raggiunto un po’ di fama, posso confermare che è piacevole. Lui in realtà riesce ad avere una grande lucidità e genuinità, riesce a mantenere questa cosa e sembra che la notorietà non gli interessi. Se la gode nei momenti dei concerti quando diventa Liberato e si fa bastare quelli».

Come si fa a mantenere un simile segreto?

«Eh…è un casino. Nella fase iniziale io ero diventato praticamente il suo segretario perché era l’unico contatto con lui che si trovava in rete. Oggi c’è una struttura ma ogni volta che bisogna firmare un contratto è un casino di deleghe per non far passare il suo nome, per la Siae è un casino per i diritti…Oggi ci sono delle persone che lavorano per questo. Ogni volta che deve prendere un volo per i live, anche per fare il mixer del film siamo dovuti andare in una sala sicura, tutte le persone che lavorano al mix sono selezionate, persone conosciute…un caos. È anche molto divertente».

Quante persone al momento conoscono l’identità di Liberato?

«In realtà pochissime, magari le persone dall’esterno non se lo aspettano. Abbiamo fatto delle cose con dei brand e poi magari il capo si aspettava di entrare nel backstage e conoscere Liberato. No, non funziona così. Non fa call, non si parla con Liberato, il suo numero ce l’hanno dieci persone. A volte non c’è nemmeno la necessità di farlo ma ormai siamo entrati in questo meccanismo. Il suo nome reale lo sanno in pochissimi e noi non lo utilizziamo più, noi utilizziamo un soprannome per nominarlo e che comunque è segreto».

Nel film si sottolinea che il suo successo non dipenda dall’anonimato, ma cosa accadrebbe se Liberato svelasse la sua identità?

«Sinceramente non lo so, ma non vedo perché debba farlo. Ho letto articoli che dicevano che con questo documentario svelerà la sua identità, ma è una cosa che lui non ha interesse a fare. Se dovesse mai svelare la propria identità, sarebbe come far morire Liberato, perché Liberato è Liberato e poi c’è la persona dietro a Liberato che è un’altra persona».

Cosa ci dici della sua strategia di comunicazione, che è parte fondamentale del suo lavoro?

«Secondo me è stato tutto poco ragionato. La strategia di comunicazione è totalmente sua. Non c’è una strategia, né un’agenzia. Molti dicono che il suo successo derivi dall’anonimato, si, ma molto fa la sua spontaneità. Io credo che nel caso Liberato il marketing sia stato confuso con le idee. Lui ha le sue idee: è il suo modo di fare, il suo linguaggio, e quello funziona. Funziona perché è molto naturale, diretto, spontaneo, misterioso, ironico».

Perché all’inizio del suo progetto ha innanzitutto contattato te, che sei un regista?

In quel momento storico c’era stata l’esplosione di YouTube, io avevo fatto il video di Cosa mi manchi a fare di Calcutta, il primo videoclip indipendente ad aver raggiunto il milione di visualizzazioni. Credo che lui in quel momento abbia realizzato che aveva una canzone ma aveva bisogno di un video, così ha cercato un regista. Non voleva un’etichetta, cosa che gli è rimasta, perché voleva autoprodursi. Tutto quello che facciamo è autoprodotto, alle volte c’è qualche sponsor ma utilizziamo gli introiti dei live».

Da napoletano cosa significa per te il lavoro di Liberato?

«Lui ha dato una nuova immagine di Napoli: contemporanea, slegata dagli stereotipi e anche internazionale. Liberato ha messo insieme la storia e la tradizione di Napoli e l’ha messa insieme allo slang giovanile, all’immaginario ultras, l’ha fatta comunicare con l’ultracontemporaneità. Napoli è sempre stata rappresentazione del vecchio e del nuovo insieme, e Liberato ha trovato il modo di raccontarla e portarla fuori dall’Italia. Io mi sento fortunato e orgoglioso di far parte di questo progetto, di esserci capitato e di averlo riconosciuto subito ed abbracciato»

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