La Statale di Milano prima in Italia per detenuti iscritti. Il coordinatore: «Classi miste, gratuità e tutor per motivarli» – L’intervista
«Quando sono stato arrestato a casa mia in Sicilia avevo 20 anni. In quei 20 anni non ho mai incontrato un libro e nessuno me ne ha mai chiesto davvero conto. Poi, in carcere, mi sono ritrovato con un compagno di cella che leggeva sempre. Pensavo fosse un povero scemo. Ma quando è stato rilasciato, sul tavolino è rimasto un libro. Ho iniziato a leggerlo ed è diventato mio compagno per anni». È solo l’inizio di una delle innumerevoli storie che il professore di Filosofia Stefano Simonetta incontra quotidianamente all’università Statale di Milano durante le sue lezioni ai detenuti che scelgono di studiare. Si tratta delle lezioni universitarie organizzate dal Progetto Carcere dall’ateneo milanese, ideato dallo stesso Simonetta e avviato nel 2015 grazie a una convenzione con il Prap (Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria). Ad oggi, il progetto coinvolge 159 studenti detenuti di ogni età e genere, numero in continuo aumento. Sono coinvolti 27 dipartimenti dell’ateneo e quasi 200 studenti della Statale che lavorano come tutor. È primo in Italia per numero di detenuti iscritti ed è tra i più grandi d’Europa. La stragrande maggioranza dei detenuti partecipanti (150) sono uomini, mentre le donne sono solo 9. Dato che, d’altronde, riflette la composizione della popolazione carceraria italiana. Secondo i numeri del Ministero della Giustizia, oltre il 95% dei detenuti nelle carceri italiane sono uomini, mentre le donne rappresentano meno del 5%.
Tra professori e studenti
Il progetto della Statale, racconta il docente Simonetta a Open, si basa su tre aspetti fondamentali: «Prima di tutto, la gratuità per chi si iscrive all’Università. In passato, molti detenuti lavoravano durante il giorno per pagarsi le tasse universitarie e studiavano in condizioni molto difficili, spesso di notte. Ora, chiunque si iscriva al nostro ateneo può completare gratuitamente il percorso di studi fino alla laurea, anche se nel frattempo ha terminato di scontare la pena». Il secondo riguarda i corsi universitari in carcere: l’ateneo offre corsi direttamente nelle carceri, con un’ampia gamma di materie che spaziano dalla filosofia alle scienze politiche, fino a quelle giuridiche e scientifiche. Il terzo aspetto è il tutoraggio: ogni studente detenuto è affiancato da uno o più tutor, ragazzi e ragazze dell’università, che lo supportano nel percorso di studi. I tutor forniscono materiali, aiutano nella preparazione degli esami e possono essere presenti durante gli esami stessi. Il prof di filosofia mette in evidenza che «le classi sono miste. Non entro solo io e i miei colleghi, ma entriamo con i nostri studenti. Ci ritroviamo classi di 40-50 persone davanti a noi, di cui metà sono studenti liberi – che scelgono in via facoltativa di partecipare – e l’altra da studenti ristretti (detenuti, ndr)». Inoltre, alle lezioni possono partecipare anche detenuti che non sono iscritti all’università, ma che hanno interesse a seguire le lezioni.
L’università in carcere
«Il tutoraggio degli studenti è fondamentale», sottolinea il docente, «perché studiare da soli è già difficile per gli studenti fuori, figuriamoci dentro, soprattutto per persone più avanti con l’età, con difficoltà linguistiche o provenienti da zone del Paese dove si parla solo dialetto». Da qui, l’indicazione che ogni detenuto abbia almeno uno, se non due, tutor. «Il nostro obiettivo è dare concretezza al concetto di “diritto allo studio” anche in carcere. Non si tratta solo di permettere a chi è detenuto di fare un esame, che è un dovere dei docenti, o di mandare un libro attraverso il sistema bibliotecario. Significa portare l’università in carcere e, se possibile, portare il carcere in università», prosegue Simonetta. «Con “portare il carcere in università” – precisa – intendo riuscire a portare i detenuti a studiare nelle nostre aule universitarie e, quindi, non nell’istituto. Molti dei nostri studenti progressivamente ottengono dai loro magistrati di sorveglianza il permesso di venire a studiare di giorno in università. All’inizio magari una volta ogni tanto, poi una volta alla settimana, poi due, tre, fino a cinque giorni alla settimana». Pertanto, aggiunge, «l’obiettivo è portare loro fuori, iniziare quel percorso di reinserimento che peraltro è previsto dalla Costituzione».
Corsi, età, reati: chi sono e cosa studiano gli studenti in carcere
Sono diverse le strutture penitenziarie coinvolte nel progetto. Dei 159 iscritti, 62 sono a Bollate, 50 a Opera, 15 a Voghera, 4 a Vigevano, 3 a Pavia, 1 a Monza, 1 a San Vittore e 1 al carcere minorile Beccaria, 20 in uffici di esecuzione penale esterna e 2 di altri istituti (Padova e Novara). Quanto alla gravità dei reati degli iscritti, 111 studenti sono in media sicurezza, 42 in alta sicurezza, mentre 6 studenti sono sottoposti al regime carcerario del 41 bis. I dipartimenti universitari coinvolti sono 27 su 31 e i corsi di laurea sono 38. Tra quelli con più iscritti c’è, al primo posto, Filosofia, dipartimento in cui il Progetto è nato, con 23 studenti, seguito da Scienze Politiche con 21, Scienze Umanistiche per la Comunicazione con 18, Scienze dei Servizi Giuridici con 15 e Giurisprudenza con 12. In totale, gli iscritti alle triennali sono 138, 12 stanno proseguendo con una magistrale, mentre 9 studenti hanno scelto una laurea magistrale a ciclo unico. Per quanto riguarda le fasce d’età dei detenuti, c’è grande diversità, anche se la maggior parte degli studenti ha più di trent’anni. Tra i 31 e 35 anni ci sono 15 iscritti, tra i 36 e 40 anni 16 iscritti, e aumentano significativamente dopo i 45 anni: dai 41 ai 45 anni sono 16, dai 46 ai 50 anni tra 20 e 24, dai 51 ai 55 anni tra 25 e 30, e dai 56 ai 60 anni tra 24 e 25 iscritti. Oltre i 60 anni ci sono 30 studenti. Tra i 18 e i 24 anni c’è un solo studente, mentre tra i 25 e i 30 anni sono 6 a seguire un percorso di studio.
«Il reinserimento sociale? Passa da uno sguardo nuovo verso sé stesso»
Su quanto questi percorsi incidano sull’efficacia del reinserimento sociale dei detenuti, Simonetta si mostra cauto e sta alla larga da «proclami eccessivamente entusiastici». Tuttavia, incalza, «sì, cerchiamo di aiutarli a reinserirsi fornendo loro strumenti preziosi che, una volta usciti, li renderanno capaci di orientarsi meglio nella vita. Penso soprattutto ai più giovani che, una volta fuori, avranno un titolo di laurea; un’arma in più, un’arma buona, molto diversa da quelle che magari hanno usato in passato». Più in generale, il docente riflette anche sulle molte persone che studiano pur sapendo che non usciranno mai dal carcere o lo faranno dopo molti anni, forse con un’età che non consentirà loro di utilizzare la laurea nel mercato del lavoro. «Per queste persone, studiare serve soprattutto a guardare sé stessi in un modo diverso», spiega Simonetta.
«Basta vedere l’orgoglio che queste persone provano nel raccontarci del loro primo esame, nel vedere lo stesso orgoglio nei loro figli, che forse non avevano mai sperimentato prima. Lo studio aiuta a cambiare il loro modo di percepirsi, a recuperare speranza e fiducia, a lenire la rabbia», osserva il professore. Uno sguardo nuovo verso se stessi che si riflette, poi, anche nell’atteggiamento verso il mondo esterno. «La nostra presenza – prosegue -, insieme a quella dei nostri studenti, attenua la sensazione che al di fuori ci sia un mondo che li odia, li disprezza, li considera dei mostri. Dissolve l’idea di guerra, noi contro loro, dentro e fuori. Così quando queste persone escono, lo fanno con meno insicurezza e forse anche meno rabbia e paura, che poi spesso genera violenza».
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