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Cortei, sabotaggi, tribunali: così è cambiata la lotta dei giovani attivisti per il clima. Neubauer: «Siamo solo all’inizio» – L’inchiesta

movimenti clima
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Gli ultimi cinque anni hanno portato a molti risultati dentro e fuori le istituzioni. Ma il futuro europeo - dicono gli attivisti a Open - è tutt'altro che roseo. Abbiamo raccolto le loro voci

Quante cose possono cambiare nel giro di cinque anni? Nel 2019, anno delle ultime elezioni europee, le piazze di tutta Europa si colorano di verde. È l’epoca della green wave, l’onda dei cortei per il clima nati dalla contestazione solitaria di Greta Thunberg di fronte al parlamento svedese e culminati in un movimento di protesta globale come non se ne vedevano da decenni. Il messaggio che sale dalle piazze di tutto il mondo è rivolto direttamente ai decisori politici e suona più o meno così: «Il tempo a disposizione sta finendo, dobbiamo agire ora». Decine di capi di Stato e di governo sgomitano per riuscire a strappare una foto insieme a quella giovane attivista svedese che è riuscita a far scendere in strada milioni di suoi coetanei in tutto il mondo. Sono in pochi, però, a raccogliere davvero l’appello di quelle piazze.

Una delle prime istituzioni politiche a rispondere alle proteste di Fridays for Future è l’Unione europea, che si candida a diventare la prima grande economia al mondo a raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050. A dicembre 2019, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen annuncia il Green Deal, il pacchetto di leggi attraverso cui l’Ue promette di rivoluzionare ogni settore della propria economia all’insegna della sostenibilità. Uno strumento imperfetto, incompleto, insufficiente, a tratti pure contraddittorio. Ma con una portata talmente dirompente da trasformarsi nel principale oggetto di scontro dei diversi partiti politici in vista delle prossime elezioni. Da una parte, chi rivendica quanto è stato fatto negli ultimi cinque anni e chiede di andare avanti con ancora più determinazione. Dall’altra, chi promette di smantellare il Green Deal pezzo dopo pezzo. Sullo sfondo, invece, ci sono sempre loro: quei giovani attivisti che ora, cinque anni più tardi, hanno tutta l’intenzione di continuare a far sentire la propria voce.

La riscoperta della disobbedienza civile

Se si prova a fare un paragone tra i grandi scioperi per il clima del 2019 e le proteste di oggi, c’è soprattutto una differenza che salta all’occhio. I cortei pacifici, colorati e pieni di vita di Fridays for Future hanno ceduto il passo a nuove modalità di protesta più radicali, come testimonia la popolarità di movimenti come Extinction Rebellion e Ultima Generazione. Secondo Tom Terrier, 25 anni, attivista di Extinction Rebellion Francia, questa evoluzione non è affatto casuale. E c’è un esempio che lo dimostra. Nel 2019, il presidente Emmanuel Macron ha lanciato la «Convenzione dei cittadini per il clima», una serie di assemblee pubbliche a cui hanno partecipato 150 cittadini estratti a sorte, incaricati di elaborare proposte da sottoporre al governo. «Le idee che sono venute fuori erano molto ambiziose, tutte frutto di un approccio che partiva dal basso», ricorda Terrier. Eppure, poche di quelle proposte hanno davvero visto la luce del sole. «Le lobby – spiega il giovane attivista francese – hanno attivato tutta la loro potenza di fuoco e il risultato alla fine è stato deludente. Episodi come questo non fanno altro che incentivare la radicalizzazione».

La Francia è senz’altro uno dei Paesi europei dove le proteste per il clima più hanno imboccato la strada della disobbedienza civile, con azioni eclatanti, flash mob, sabotaggi e occupazioni. A inizio 2023, il governo francese ha provato addirittura a smantellare il collettivo Les Soulèvements de la Terre, una delle frange più radicali della protesta, salvo poi essere costretto a un passo indietro dopo le enormi manifestazioni di solidarietà organizzate in tutto il Paese. Extinction Rebellion, di cui Tom Terrier fa parte, ha organizzato una grossa campagna contro Total Energies, colosso petrolifero francese e tra le prime quattro aziende al mondo nel settore dell’Oil & Gas. «Alcune persone sono riuscite a entrare nelle fabbriche e nelle raffinerie», racconta il giovane attivista, che non nasconde di preferire azioni radicali come quelle alle semplici manifestazioni di strada. «Quando torni a casa da un corteo, senti di avere perso perché niente è cambiato rispetto a prima. Con la disobbedienza civile, invece, hai la sensazione di fare qualcosa di più coraggioso e di più concreto».

Un flash mob organizzato da Extinction Rebellion alle raffineria di Total Energies a Donges, in Francia

Lützerath, epicentro della nuova lotta per il clima

Riavvolgendo il nastro di ciò che è successo negli ultimi cinque anni, la battaglia che più è riuscita a mobilitare i movimenti ambientalisti di tutta Europa parte da Lützerath, un piccolo villaggio della Renania, in Germania. Fino al 2006 ospitava un centinaio di abitanti, oggi non è altro che un paese fantasma. Il motivo? A poche centinaia di metri di distanza si trovano due delle più grosse miniere di carbone del mondo: Garzweiler e Hambach. Negli ultimi anni, la RWE – un’azienda tedesca specializzata in lignite, una forma di carbone molto inquinante – ha ottenuto il permesso di espandere le proprie operazioni fino a inglobare anche l’ex villaggio di Lützerath, costringendo di fatto gli abitanti a una fuga forzata. L’azienda e i politici locali si aspettavano senz’altro una qualche forma di resistenza da parte dei residenti e delle principali sigle ambientaliste. Ma non potevano prevedere che Lützerath, un minuscolo villaggio sconosciuto ai più, si sarebbe trasformato nel nuovo palcoscenico della protesta ambientalista.

A inizio 2023, migliaia di attivisti si sono dati appuntamento in Renania per protestare contro l’espansione della miniera di carbone. Una manifestazione enorme, a cui ha preso parte anche Greta Thunberg. Quei giorni a Lützerath era presente anche Luisa Neubauer, 28 anni, originaria di Amburgo, uno dei nomi di punta di Fridays for Future nel mondo. È anche merito suo se la Germania è riuscita a distinguersi negli ultimi anni come uno dei Paesi europei più vivaci in termini di proteste per il clima. «Le proteste che abbiamo lanciato nel 2019 hanno raggiunto risultati straordinari. Non solo perché abbiamo messo la lotta ai cambiamenti climatici in cima all’agenda politica, ma anche perché ora il clima è diventato uno di quei temi in grado di decidere l’esito di un’elezione», spiega a Open Luisa Neubauer.

Luisa Neubauer e Greta Thunberg a un corteo di protesta contro la miniera di carbone di Lützerath, in Germania (EPA/Ronald Wittek)

Le promesse del Green Deal e la rivolta degli agricoltori

Secondo l’attivista 28enne, sono state proprio le proteste di Fridays for Future, iniziate a pochi mesi dalle ultime elezioni europee, a convincere la classe politica – a partire dai vertici dell’Unione europea – ad agire. «Il Green Deal è il migliore pacchetto di politiche climatiche mai approvato e allo stesso tempo è totalmente insufficiente per arginare la crisi climatica», osserva Neubauer. Insomma, qualche passo avanti è stato fatto, ma la strada da fare è ancora tanta. «Il Green Deal ha ribaltato quella narrativa che vedeva l’azione per il clima come qualcosa che avrebbe costretto a sacrificare la crescita economica o la sicurezza energetica. Oggi, per esempio, ci siamo resi conto finalmente che esiste un legame diretto tra autocrazie e combustibili fossili», precisa l’attivista tedesca.

La prima battuta d’arresto vera e propria all’agenda verde europea è arrivata nei primi mesi del 2024, quando migliaia di agricoltori sono scesi in strada a bordo dei propri trattori in diversi Paesi europei. Nel mirino c’erano alcune questioni economiche, a partire dallo scarso potere negoziale nelle trattative con i colossi della grande distribuzione, ma anche molti di quegli obblighi ambientali introdotti nel 2021 con la riforma della Pac, la Politica agricola comune. «Abbiamo ancora un’idea romantica dell’agricoltore, come se si trattasse del vicino di casa che si prende cura di noi e ci sfama», spiega Neubauer. «La verità, aggiunge l’attivista tedesca, è che in Europa il settore è dominato dalle lobby industriali, non dai piccoli agricoltori». Una visione tutto sommato simile arriva anche da Tom Terrier, che in Francia ha visto l’estrema destra salire nei sondaggi anche grazie alle proteste dei trattori. «Molti di noi, nei movimenti per il clima, non hanno capito la portata di quelle proteste. L’estrema destra si è mossa con più anticipo e ha preso il controllo della narrazione, creando questa divisione artificiosa tra ecologisti e agricoltori», spiega l’attivista francese di Extinction Rebellion.

Una protesta degli agricoltori di fronte alla sede del Parlamento europeo a Bruxelles, in Belgio, 26 marzo 2024 (EPA/Olivier Matthys)

Dalle piazze alle aule di tribunale

Agricoltori permettendo, gli ultimi cinque anni sono stati piuttosto vivaci per i movimenti ambientalisti. Proteste di piazza, cortei, azioni di disobbedienza civile e persino le aule di tribunale. Da qualche anno si è aggiunto infatti un nuovo strumento all’arsenale di tattiche che consente alle organizzazioni per il clima di portare avanti le proprie battaglie. Si tratta delle climate litigations, in italiano «contenziosi climatici», in cui un gruppo di cittadini intenta una causa a una società privata o a un ente pubblico per contestare il mancato rispetto degli obblighi sulla riduzione delle emissioni di gas serra. In Italia uno dei primi esempi è la causa promossa da ReCommon e Greenpeace contro il colosso petrolifero Eni. Mentre uno dei casi che ha fatto scuola a livello europeo arriva dal Belgio ed è stato ribattezzato «Climate case», la causa per il clima. Tutto inizia nel 2014, quando un gruppo di undici cittadini porta in tribunale il governo e gli amministratori locali accusandoli di non fare abbastanza per rispettare gli impegni sul clima. «La nostra causa offre ai politici un’occasione d’oro per dimostrare di essere veri leader, che realizzano cambiamenti positivi e garantiscono benefici tangibili per i loro elettori. Può essere davvero la causa in cui tutti vincono», spiega Serge de Gheldere, uno di quegli undici cittadini belgi che ha dato il via al contenzioso climatico dieci anni fa.

Il 30 novembre 2023, la Corte d’Appello di Bruxelles ha pronunciato una sentenza destinata a entrare nella storia, che ha ordinato al governo belga e alle amministrazioni locali di ridurre le emissioni di gas serra almeno del 55% entro il 2030, come da impegni sottoscritti in sede europea. «I governi hanno il compito di guidarci attraverso transizioni epocali come questa, proprio come hanno fatto in passato con i trasporti pubblici, l’istruzione, la sanità», osserva de Gheldere. E quando quegli stessi governi non rispettano gli impegni che prendono, c’è bisogno di un «bastone», come lo definisce l’attivista belga, ovvero qualcosa che li spinga ad agire per davvero. Lo ha dimostrato la storica sentenza della Corte europea per i diritti dell’uomo, che ha accolto un ricorso presentato da un’associazione di anziane – le Klimaseniorinnen – e ha condannato la Svizzera per non aver preso misure adeguate contro l’avanzata dei cambiamenti climatici. «In passato è successa la stessa cosa anche in settori come l’amianto, i diritti civili, il tabacco e l’inquinamento ambientale. Le cause legali – insiste de Gheldere – hanno stimolato la riforma politica e il progresso sociale, spesso anticipando la politica».

L’esultanza delle Klima Serioninnen svizzere dopo la storica sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, 9 aprile 2024 (EPA/Ronald Wittek)

Ecologisti e operai, fianco a fianco

L’esperienza degli ultimi anni ha dimostrato poi che la lotta per il clima è intrecciata a doppio filo con tante altre rivendicazioni: i diritti delle minoranze, il contrasto alle disuguaglianze sociali, il diritto a un lavoro sicuro e ben retribuito. Un esempio di questa intersezionalità è l’alleanza tra Fridays for Future Italia e il collettivo di fabbrica dell’ex Gkn di Campi Bisenzio, a Firenze. Tutto inizia nel 2021, quando la vecchia proprietà dell’azienda annuncia con una mail il licenziamento collettivo di oltre 400 operai e la volontà di delocalizzare la produzione. I lavoratori rispondono occupando la fabbrica e istituendo un’assemblea permanente: è qui che inizia il dialogo con il mondo ambientalista. «C’era l’esigenza di reindustrializzare e creare un’idea di produzione basata su due pilastri. Primo: il fatto che i lavoratori possano essere al timone di quello che producono. Secondo: la necessità di puntare sulla transizione ecologica», spiega Martina Comparelli, portavoce di Fridays for Future Italia.

Nel 2023, il movimento ambientalista si è unito al collettivo di fabbrica e ad altre realtà per trasformare l’ex stabilimento Gkn nella «prima fabbrica socialmente integrata d’Italia», in grado di produrre pannelli fotovoltaici, batterie e cargo-bike. L’obiettivo era raccogliere almeno 75mila euro per dare un primo stimolo al progetto. Nel giro di pochi mesi, la cifra complessiva raccolta con la campagna di crowdfunding è stata di 173.690 euro. «Bisogna superare il ricatto tra ambiente e lavoro, che viene fatto da quei proprietari che dicono: “se si fa la transizione ecologica, voi perdete il posto”», osserva Comparelli. La vertenza degli operai dell’ex Gkn non si è ancora conclusa. A fine 2023, il Tribunale del Lavoro di Firenze ha accolto il ricorso presentato dalla Fiom-Cgil e ha scongiurato il nuovo tentativo di licenziamento collettivo che sarebbe scattato dal primo gennaio 2024. Sabato 18 maggio, gli operai di Campo Bisenzio sono tornati a manifestare per le vie di Firenze, potendo contare ancora una volta sull’appoggio degli attivisti di Fridays for Future. «Per un movimento come il nostro – insiste Comparelli – è importante non contrapporre la nostra lotta ai bisogni primari delle persone. E con Gkn abbiamo fatto esattamente questo».

Il corteo durante il G20 a Roma del 30 ottobre 2021, a cui hanno partecipato, tra gli altri, i lavoratori della Gkn e gli studenti di Fridays for Future (ANSA/Giuseppe Lami)

Il messaggio in vista delle elezioni di giugno

Dal 2019 ad oggi, il panorama europeo degli attivisti per il clima si è arricchito di nuovi volti, ha diversificato la propria strategia e in un certo senso ha raggiunto anche lo stadio della maturità. La lotta ai cambiamenti climatici è finita in cima alle priorità della politica, proprio come chiedevano quei manifestanti che per anni hanno occupato le piazze di tutta Europa. Eppure, gli attivisti sentono che il lavoro è tutto fuorché finito. «Siamo solo all’inizio di questo percorso e c’è già chi chiede di fermare tutto e tornare indietro», fa notare Luisa Neubauer. Anche Martina Comparelli non è esattamente ottimista in vista del voto dell’8 e 9 giugno: «Non so esattamente che speranze nutriamo nei confronti della tornata elettorale che si avvicina», sospira la portavoce di Fridays for Future Italia. «Ci sono alcune persone dentro il Parlamento europeo che vogliono davvero cambiare le cose», spiega Tom Terrier. Eppure, aggiunge con amarezza l’attivista francese, «basta che qualcuno inizi a mostrare i muscoli, come hanno fatto gli agricoltori, e sono tutti pronti a cancellare quanto di buono è stato fatto». E forse è proprio con questo atteggiamento che gli attivisti per il clima si presentano alle elezioni europee: un po’ di ottimismo per quanto è stato fatto, ma anche tanta preoccupazione per cosa potrà succedere. In fondo, quante cose possono cambiare nel giro di cinque anni? Tutto, se si guarda ai traguardi che sono stati raggiunti. Niente, se basta il risultato di un’elezione per rischiare di tornare al punto di partenza.

Foto di copertina: Elaborazione grafica di Vincenzo Monaco

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