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Fratoianni: «Ilaria Salis sarà eletta a valanga. Netanyahu? Criminale di guerra, ma nei cortei pro-Gaza no all’odio per Israele» – L’intervista

29 Maggio 2024 - 19:14 Simone Disegni
Il leader di Alleanza Verdi e Sinistra a Open: «Noi da sempre per il no alle armi, a differenza del M5s di Conte. Meloni rompa gli indugi e riconosca la Palestina»

Una serata a Torino per Ilaria Salis, l’indomani mattina a Brescia per l’anniversario della strage di piazza della Loggia, incontri a Milano, poi di corsa verso Forte dei Marmi per un’iniziativa sulle spiagge davanti al Twiga di Daniela Santanché. Mancano ormai pochi giorni all’apertura delle urne per le Europee e Nicola Fratoianni gira l’Italia in lungo e in largo. Non è candidato, ma vuole spingere le liste di Alleanza Verdi e Sinistra guidate al nord-ovest da Ilaria Salis, al centro da Ignazio Marino e al Sud da Mimmo Lucano oltre la soglia di sbarramento del 4%. Possibilmente di slancio. «Vedo un clima di entusiasmo e mobilitazione straordinari attorno a noi, soprattutto per Ilaria», assicura il segretario di Sinistra italiana arrivando nella redazione di Open per un’intervista a 360 gradi, occasione per toccare tutti i temi cruciali del momento – dal destino dell’insegnante detenuta in Ungheria al Green Deal, dal bivio tra guerra e pace per l’Europa al dramma di Gaza. Senza negarsi lo sfizio di provocare Giuseppe Conte sul tema delle armi e di lanciare un appello pubblico a Giorgia Meloni sul futuribile Stato di Palestina.

On. Fratoianni, l’8 giugno si aprono le urne per le Europee. Ursula von der Leyen si è ricandidata a guidare l’Ue per altri cinque anni. Qual è il suo giudizio sulla Commissione che ha presieduto negli ultimi cinque? Promossa o bocciata?

«Bocciata. Il nostro non è un buon giudizio su Ursula von der Leyen, e non lo è soprattutto su quello che sta accadendo in questa coda di legislatura in cui l’Europa sembra aver tirato il freno a mano, tornando indietro in modo preoccupante rispetto a scelte che nell’urto della pandemia avevano segnato una discontinuità. Penso al Next Generation EU, con cui si dava finalmente lo stop all’austerity per costruire un grande investimento sul futuro dell’Europa, fondato sulla conversione ecologica e sulla ricostruzione di sistemi di protezione per i più fragili, a cominciare dal welfare e dalla sanità. Il nuovo Patto di stabilità è un tradimento di quell’aspirazione, come lo è stato consentire che una parte di quei fondi declinati nei Pnrr nazionali potessero essere utilizzati per la spesa in difesa. Non c’è tradimento più grande di usare per le armi dei fondi concepiti nel nome delle nuove generazioni europee, cioè del futuro di un’Europa di speranza. Ciò detto, oggi noi pensiamo che il rischio che abbiamo di fronte sia quello del nazionalismo che avanza e di uno spostamento a destra dell’Ue. Noi lavoreremo per impedirlo. Naturalmente le elezioni segneranno i rapporti di forza del Parlamento europeo e sulla base di quelli discuteremo». 

Dunque a priori non escludereste di sostenere una nuova Commissione von der Leyen se si formasse nel prossimo Parlamento una maggioranza simile a quella uscente?

«Noi lavoreremo per impedire che ci sia una maggioranza di destra-destra, una maggioranza simile a quella di questo Paese o a quella a cui aspirano i nazionalisti sparsi in giro per l’Europa, dagli Orbán alle Le Pen ai neo-franchisti e neo-fascisti di Vox in Spagna. Questo è il primo obiettivo. Vorremmo però un asse che si sposta a sinistra e verso un ecologismo oggi in grado di misurarsi con le grandi sfide».

Voi proponete su questo terreno non solo di rilanciare il Green Deal, ma addirittura di anticipare gli obiettivi ambientali Ue, prevedendo di cessare l’uso di carbone entro il 2030 e quello di petrolio e gas entro il 2040, così da avere per quella data «un’Europa alimentata al 100% da energie rinnovabili». Suona bellissimo, ma è realistico? Il Foglio vi accusa di aver scritto un libro dei sogni che più che pulita l’Europa la renderebbe povera. 

«Temo che ci sia qualcuno che si appassiona ai libri di incubi. La verità è che noi facciamo i conti con una crisi climatica che schianta il pianeta, non solo sul piano ambientale ma anche su quello economico. Bisogna investire oggi per un’accelerazione decisa sul terreno della transizione, che sia una transizione giusta. Chi ne paga i costi? Noi diciamo che è l’ora che a pagare sia chi si è arricchito nella crisi, anche in quella climatica: le grandi multinazionali dell’energia, delle armi o del farmaco, le banche che hanno fatto enormi extraprofitti. Ma anche i grandissimi multimiliardari, chi ha enormi patrimoni, può dare qualcosa nell’interesse generale. Se non ci sbrighiamo, la crisi climatica continuerà a produrre effetti devastanti non solo per la vita della specie umana sul pianeta, ma anche sulle nostre tasche. Ce l’ha ricordato qualche giorno fa il membro italiano dell’Executive Board della Bce (Piero Cipollone, ndr) e ce lo ricorda un recente studio di Nature: se non poniamo rimedio subito, nei prossimi decenni si ridurranno e di molto i salari reali, dunque il potere d’acquisto. E la crisi climatica fa già aumentare ogni anno l’inflazione, per esempio per gli effetti sul costo dei prodotti della filiera alimentare. Questo ha a che fare eccome con la povertà, ma con quella della maggioranza dei cittadini e cittadine, dei più deboli. Quelli che ci accusano di scrivere libri dei sogni temo abbiano altre priorità». 

Vostra candidata di punta nel Nord-Ovest e nelle Isole è Ilaria Salis. Lei l’ha incontrata poche settimane fa a Budapest ed è in costante contatto col padre Roberto. Prima di tutto, come sta?

«Ora da qualche giorno un po’ meglio, sta cercando di riprendere un po’ di contatto col mondo. È uscita dopo 15 mesi dal più antico carcere di Budapest, da una piccola cella nella quale era chiusa 23 ore al giorno, con un’ora d’aria alla quale doveva rinunciare quando c’era una visita o un incontro. Ilaria per 15 mesi ha vissuto una detenzione durissima, nei primi mesi addirittura oggetto di una violazione sistematica dei diritti fondamentali: le sono stati negati gli assorbenti, gli indumenti intimi, gli asciugamani. “Mi raccomando, ci vuole silenzio, così lavoreremo meglio con la diplomazia”, diceva il governo. Qualcosa è cambiato invece dopo che qualcuno ha scelto di rompere quel silenzio, quando il papà ha detto basta, si è messo a gridare e con lui tanti e tante, e poi noi abbiamo scelto di rendere disponibile Avs per la sua candidatura. Allora qualcosa è cambiato, nelle sue condizioni detentive prima e poi anche sul piano del suo processo. Il ricorso dei suoi avvocati è stato accolto, e Ilaria è ai domiciliari. Ma la partita non è chiusa, perché Ilaria Salis, connazionale di 39 anni, rischia 24 anni di galera per un reato, rispetto al quale lei si professa innocente, che in Italia non avrebbe neanche dato origine a un processo, perché la presunta vittima non ha mai fatto mai denuncia, e non l’ha neppure riconosciuta quando si è presentata in aula, così come i due presunti testimoni. Io penso che quella di Ilaria Salis sia una vicenda che riguarda questa donna, il suo corpo, la sua condizione, ma che parla all’Europa, a tutti e a tutte noi, perché se noi accettiamo girandoci dall’altra parte che in un Paese qualsiasi dell’Ue – oggi l’Ungheria, domani chissà – possa capitare a un cittadino, europeo o meno, quello che è capitato ad Ilaria, allora dobbiamo sapere che domani quel trattamento può essere riservato a tutti e tutte».

Il suo caso giudiziario in Ungheria resta delicatissimo. Se sarà eletta europarlamentare, il giorno dopo che succederà?

«Io sono certo che Ilaria sarà eletta, e che lo sarà con una valanga, un fiume di voti. Quello che avvertiamo in questa campagna elettorale è impressionante, una grande mobilitazione solidale con lei e con ciò che questa vicenda rappresenta. Succederà che Ilaria sarà una parlamentare europea, quindi dotata di immunità, e noi ci auguriamo che immediatamente Ilaria possa prendere possesso della sua funzione e cominciare a esercitare il suo ruolo, e che anche da quella condizione possa affrontare il processo, ma in una condizione giusta, in cui i suoi diritti siano garantiti. Non come accade in un Paese nel quale il giudice, nella prima udienza dopo i domiciliari, come se niente fosse rivela l’indirizzo al quale Ilaria è detenuta ai domiciliari – poi pubblicato su uno dei più importanti siti neonazisti ungheresi con l’invito neanche troppo implicito a farne uso…».

A proposito di Ungheria, voi scrivete nel vostro programma che oggi «l’Europa è ad un bivio: deve scegliere tra la via delle armi e della guerra o quella della pace». Non le fa specie che lo stesso bivio cruciale e la stessa via da seguire – quella del no al riarmo dell’Ucraina e dell’Ue stessa – li indichino ai propri elettori due dei vostri più acerrimi nemici, Viktor Orbán e Matteo Salvini?

«No, perché io non ho mai pensato né agito nella mia vita secondo quell’adagio per cui il nemico del mio nemico è mio amico. Oggi la guerra è il mio nemico, ma non è che tutti quelli che per una ragione molto diversa dalla mia pensano qualcosa di simile allora diventano miei amici. Putin per me è un avversario radicalmente collocato dall’altro lato del campo, è un uomo della destra internazionale. Come lo è Orbán, che dice quello che dice non perché pensa che serva la pace, ma perché è amico di Putin e si colloca su quella sponda. Del resto è quello che ha sempre fatto Salvini nella sua ambiguità. Dicevano ai pacifisti “Siete filoputiniani”, cercavano tra di noi gli amici di Putin, ma perdevano tempo. Trovare gli amici di Putin in Italia è sempre stato facilissimo: stavano dove sono sempre stati, a destra, dalle parti della Lega. E così accade in giro per il mondo, considerata la rete di relazioni della destra a livello internazionale».

Le forze russe bombardano ogni giorno l’Ucraina e tentano di sfondare le sue linee, mentre Putin evoca la minaccia di passare poi alla “preda” successiva. Non è forse vero che un autocrate come lui comprende solo il linguaggio della forza e dunque vanno mostrati i muscoli militari europei? 

«Io penso che oggi si debba battere la prospettiva della guerra come prospettiva a cui rassegnarsi, perché quella prospettiva distrugge il mondo intero: non solo con la promessa, o meglio la minaccia, dell’incubo nucleare e della guerra mondiale, ma perché la guerra piega alle sue ragioni l’economia, fa sì che i Pnrr possano diventare terreno su cui costruire spesa militare, che gli investimenti per la transizione ecologica, digitale o per la ricostruzione del welfare siano più ristretti; e perché la guerra produce nazionalismo, aumenta la xenofobia e il razzismo, porta a destra. Vedo che in queste ore altri leader rivendicano l’esclusività della pace. Giuseppe Conte ha presentato sui social una card in cui ci sono i simboli delle forze per il «sì alle armi» – la maggioranza e il Pd, e i 5 Stelle per il «no alle armi». Voglio dirgli che ce ne sono altre – noi – che non hanno mai votato per le armi, neppure quando loro invece lo hanno fatto. Ma io sono contento di non essere solo in questa battaglia, perché la pace non è un’esclusiva: è una necessità. Per due anni e mezzo l’Europa ha messo in capo una sola strategia – le armi, le armi, le armi – ripetendoci che esse sono lo strumento necessario perché si costruisca sul campo l’equilibrio per arrivare a una diplomazia, a una pace giusta. Io continuo a domandare: quando arriva quest’equilibrio? Perché di armi ne parliamo sempre, di pace non ne parla più nessuno. La diplomazia è ferma e l’Europa non ha né una soggettività, né un progetto, né un’iniziativa».

La guerra tra Israele e Hamas dopo 8 mesi è in un vicolo cieco e a Rafah c’è stata l’ennesima strage di civili per quello che l’Idf ha definito un «tragico errore». Cosa può fare l’Ue per porre fine a questa guerra senza che ciò consenta a Hamas di riprendere il controllo di Gaza e tornare a colpire Israele?

«Quella in corso a Gaza non è una guerra, è un’operazione di sterminio. Benjamin Netanyahu è un criminale di guerra che si sta macchiando da molti mesi di crimini contro l’umanità e che sta determinando le condizioni di un genocidio. Bisogna chiamare le cose con il loro nome».

On. Fratoianni, le parole qui pesano come pietre. Genocidio implica la volontà di cancellare un popolo.

«In tutto o in parte, come stabilisce il diritto internazionale con precisissime coordinate. Si fa spesso questa discussione sul genocidio facendone il terreno di una disputa politica. Per me non è così: io uso questa parola come la usa il diritto internazionale. Possiamo anche chiamarlo in un altro modo, ma qualcuno deve dirmi come vuole chiamarlo, quello che sta accadendo a Gaza ormai da molti mesi. Siamo di fronte a una strage quotidiana, altro che errori, a un massacro di civili che non possono scappare da nessuna parte. Gaza prima era una prigione a cielo aperto, oggi è una prigione a cielo aperto completamente distrutta. Oltre l’80% delle infrastrutture civili sono state rase al suolo: case, ospedali, scuole, luoghi di culto. Non c’è più niente a Gaza: non c’è l’acqua, non c’è cibo, gli aiuti si ammassano a tonnellate al valico di Rafah. Sono stato lì e ho visto coi miei occhi le migliaia di automezzi fermi perché l’esercito israeliano non li fa entrare. Che devono fare queste persone? È chiaro quello che sta accadendo. È qualcosa di fronte a cui la nostra coscienza grida vendetta, e se non lo fa oggi domani dovrà risponderne alla storia. Questa strage va fermata, e per fermarla servono degli atti concreti».

A quali pensa?

«Si cominci a discutere seriamente di sanzioni nei confronti del governo israeliano. Si è discusso e si è proceduto in qualche caso a sanzioni individuali, selettive verso i comportamenti dei singoli coloni degli insediamenti illegali. Bene, ma serve un salto di qualità, come si è fatto peraltro con la Russia. Noi abbiamo sempre votato a favore delle sanzioni contro la Russia. Perché non se ne può discutere di fronte a quello che sta accadendo? Perché l’Ue non mette in discussione il Trattato di associazione con Israele che all’articolo 2 prevede esplicitamente che in caso di violazione grave dei diritti umani l’accordo vada sospeso? (L’articolo citato indica il rispetto dei diritti umani come elemento essenziale dell’Accordo, è invece l’articolo 79 a indicare genericamente che una delle parti può “prendere misure appropriate” ove ritenga che l’altra stia venendo meno a un suo obbligo ai termini dell’Accordo, ndr). Proponiamo di sospenderlo, non di cancellare per sempre le relazioni bilaterali. Che cosa deve accadere ancora di più per verificare che siamo di fronte non a gravi ma a gravissime violazioni dei diritti umani? Terzo, si riconosca lo Stato palestinese. Lo dico a Giorgia Meloni che viene ogni volta in Parlamento e ci dice “Noi siamo per due popoli e due Stati”. Bene: come fai a farlo se uno dei due Stati non lo riconosci? Basta con questa ipocrisia. E grazie a Spagna, Irlanda e Norvegia che hanno riconosciuto lo Stato palestinese».

Qual è il punto d’arrivo cui guarderebbe l’applicazione di tali misure? Forzare un regime change, un cambio di governo in Israele, nella speranza che possa poi riaprirsi una strada di dialogo tra i due popoli?

«Il governo israeliano per anni ha intrattenuto relazioni con Hamas. Sono due facce della stessa medaglia. Il fondamentalismo si autoalimenta reciprocamente. Certo, se cadesse il governo del criminale di guerra Benjamin Netanyahu sarebbe una splendida notizia: per Israele, per la Palestina, per il il Medio Oriente e per il mondo intero. Oggi però serve un’iniziativa. Israele continua a detenere nelle sue carceri quello che è considerato unanimemente il leader laico più autorevole del popolo palestinese, seppellito da decenni di ergastoli: Marwan Barghouti. E tutti sanno che la scelta di non liberarlo ha un obiettivo: quello di non legittimare la costruzione di una leadership di altro segno. Il governo Netanyahu non vuole lo Stato palestinese, lo considera una sciagura, lo rimuove in radice. E i ministri ancor più di destra di Netanyahu dicono quotidianamente cose inascoltabili. Bisogna che qualcuno faccia qualcosa».

Molte università italiane sono occupate dai collettivi che denunciano il «genocidio» che Israele compirebbe a Gaza, mentre nei cortei di mezzo mondo risuona lo slogan «Palestina libera dal fiume al mare». Non le sembra che a moti genuini di solidarietà e giustizia si mescoli troppo spesso un odio viscerale per Israele che nulla ha a che fare con la costruzione della pace?

«Sì, questo rischio c’è, esiste, così come esiste il rischio dell’antisemitismo. Che però non può essere confuso con qualsiasi critica che dica che l’occupazione israeliana in Palestina è una gigantesca violazione del diritto internazionale che va avanti da troppi decenni, che quello che accade a Gaza è uno sterminio e anche che rischia di diventare ogni ora di più un genocidio. Io penso che noi dobbiamo essere non all’erta, di più, di fronte a ogni anche piccolissimo rigurgito di antisemitismo. Dobbiamo essere all’erta rispetto ad ogni posizione che immagini anche solo lontanamente la cancellazione dello Stato di Israele. Per quello che mi riguarda, per la mia cultura politica, tutto questo non è neanche lontanamente in discussione: è un punto di partenza della mia idea e del modo con cui sto al mondo. Vedo questo rischio, certo che c’è. Penso che perché questo rischio possa essere battuto – qui e in Palestina, nel Medio Oriente, ovunque – occorre che si costruisca una via d’uscita e che ci sia una reazione. Il silenzio della comunità internazionale, l’incapacità di segnare una discontinuità, non è più tollerabile, perché l’ipocrisia e i due pesi due misure, se non tre o quattro, sono un problema gigantesco per il mondo: oggi di fronte a quello che accade a Gaza, domani per il futuro».

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