Alla festa-concerto dei Pinguini Tattici Nucleari: «Noi lontani dalla bellezza artefatta del mestiere» – L’intervista

La band bergamasca chiude a Messina il suo tour nei palazzetti. Riccardo Zanotti a Open: «Raccontarci che il treno passa solo una volta è sbagliato, di treni ce ne sono dieci che partono ogni giorno da Bergamo verso Milano, ma la scelta di salire la devi fare tu»

«Noi ci trovavamo davanti ad un’incognita: essere dimenticati. La discografia procede con tempi così veloci che il rischio di restare indietro è alto». Siamo nel backstage del Palarescifina di Messina, è mezzanotte inoltrata e incontriamo i Pinguini Tattici Nucleari alla fine dell’ultima data del loro tour nei palazzetti. Le parole sono invece di Riccardo Zanotti e ci riportano indietro di qualche ora, quando in fila per entrare davanti a noi c’erano molti genitori con figli al primo concerto. Succede spesso ai concerti dei Pinguini Tattici Nucleari, la cui narrazione, soprattutto grazie allo stile di scrittura di Zanotti – così solare, eppure così profonda, sensibile, efficace e diretta – non può far altro che coinvolgerti in qualcosa che travalica i confini della canzone. Una visuale, un modo di stare al mondo, mai facile, sempre colmo di sogni e speranze e amori e addii e voglie e rospi da mandare giù e slanci di solarità con la consapevolezza di una semplicità imperfetta, di una profonda umanità. «Siamo una cosa diversa – continua Zanotti – la bellezza in questo mestiere è qualcosa di artefatto, ma noi non siamo in grado di farlo, siamo quello che siamo, abbiamo sempre portato quello che siamo».


Foto di Francesco Algeri

Si chiude il secondo capitolo della favola dei Pinguini

Il concerto di Messina chiude il secondo capitolo di una delle più belle favole del pop italiano moderno. Il primo parte dalla profonda provincia bergamasca, da sei amici che suonano metal demenziale, e da Londra, dove uno di loro è iscritto al corso di laurea in Commercial Music all’Università di Westminster: è un ragazzo di Alzano Lombardo, Riccardo Zanotti, che ha appena finito il turno al Costa Coffee di Tottenham Court Road, e tornando a casa sul bus, stanco, si lascia incantare da Gaetano, uno dei primi successi di Calcutta. Capisce non solo la portata della rivoluzione indie ma anche che è possibile farne parte. Da lì in poi la storia è nota, la gavetta in giro per l’Italia, un successo veloce e clamoroso che in realtà Sanremo decreta soltanto dinanzi al largo pubblico di mamma Rai, ma che risultava già, Ariston o meno, inevitabile. «Di solito ci si schiera da due parti contrapposte rispetto il destino: chi crede che sia scritto e immutabile e chi dice che tu sei partecipe delle tue decisioni, io sono un po’ nel mezzo, un po’ democristiano. Io penso che le azioni che compiamo siano importantissime e credo che ci debbano essere dei momenti in cui tu devi essere attivo e non passivo. I miei momenti te li posso citare: quando abbiamo deciso di fare Sanremo e la scelta non era obbligata, tanti del nostro circuito dicevano no, non era popolare, non era quello che è diventato oggi. Mi viene in mente quella volta che abbiamo suonato al Primo Maggio o quando abbiamo aperto certe band…Ci siamo buttati tante volte nella vita». La seconda parte di questa favola parte dal Covid e dalla logorante attesa per il primo tour dopo l’exploit al Festival, con l’impressione che il treno sia passato ma la sfortuna gli abbia impedito di salire a bordo. Eppure a questa narrazione Zanotti non ha mai creduto: «Raccontarci che il treno passa solo una volta è sbagliato, di treni ce ne sono dieci che partono ogni giorno da Bergamo verso Milano, ma la scelta di salire la devi fare tu». Infatti, è storia nota, è andato tutto come doveva: il primo tour, una serie di hit, due dischi, Ahia! e Fake News, semplicemente perfetti che rimpolpano un repertorio già estremamente ricco, un tour negli stadi che meriterebbe una letteratura a parte, con queste date che si moltiplicano e si chiudono con un sold out in meno di niente, e poi questo secondo giro nei palazzetti.


Foto di Francesco Algeri

Il live

Il concerto è, come al solito, una gigantesca festa, Riccardo, Lorenzo, Elio, Nicola, Simone e Matteo annullano le distanze con il pubblico, il palco diventa un non luogo dove alla bisogna chiunque è accolto. L’effetto delle loro canzoni sulla gente è sempre stupefacente. Al momento di suonare Hold On, quando la band offre ad un qualsiasi spettatore di farsi tatuare il titolo in diretta sul palco, una foresta di braccia si erge dal parterre, tutti vogliono avere quella scritta addosso per tutta la vita. La scaletta è regolare, c’è tutto ciò che ci deve essere, anche qualcosa in più, tipo un sentito omaggio a Franco Battiato con L’era del cinghiale bianco, ma anche un momento toccante in cui Elio legge una poesia di Mahmoud Darwish mentre il pubblico fa tintinnare le chiavi di casa creando un effetto pioggia commovente, una presa di posizione politica forte e decisa rispetto la guerra tra Israele e Palestina. Una valanga di emozioni che non poteva però che infrangersi forte sul pubblico sul finale con Ringo Starr e Pastello Bianco, forse al momento le due canzoni simbolo di questo percorso, soprattutto la prima, aldilà dei fuochi d’artificio sanremesi: «Il nostro pubblico ha bisogno di evadere dalla presunzione di perfezione – spiega il cantante -. Quella cosa che hanno percepito gli artisti, da Sangiovanni a Mr. Rain, lo vivono anche le persone normali, tutti la viviamo: l’aspettativa sulle spalle, il dovere di essere sempre iperperformanti. C’è una certa affinità col nostro pubblico, un senso di rivalsa che si soddisfa non tanto vincendo, ma creando un altro percorso da quello che la gente si aspettava da te, la vittoria in sé non ha valore se il percorso se l’è inventato qualcun altro. Questo è quello che trasmettiamo: abbiamo creato una strada nell’erba alta, mi piace pensare così».

Foto di Francesco Algeri

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