Israele, l’ultradestra di Ben Gvir pronta a far saltare il governo: «No alla tregua a Gaza». Netanyahu avverte Hezbollah: «Basta razzi dal Libano»

In bilico l’accordo per un cessate il fuoco. Nel Giorno di Gerusalemme la sfilata di destra nella Città Vecchia: slogan anti-arabi e aggressioni a giornalisti e attivisti

In Israele oggi è il “giorno di Gerusalemme”, dedicato all’orgoglio per la storica città simbolo ritrovata, appuntamento iconico per l’estrema destra che lo celebra con una marcia nella Città Vecchia, tramutatasi da anni nell’occasione per ribadire slogan oltranzisti e anti-arabi. I militanti in parata hanno attraversato fin dal mattino il Quartiere musulmano della Città vecchia al grido di “morte agli arabi”, hanno assaltato alcuni negozi palestinesi e picchiato alcuni cittadini arabi, attivisti e giornalisti, compreso l’inviato di Haaretz Nir Hasson. Sul piano politico, non a caso proprio oggi il ministro della Sicurezza e leader dell’ultradestra Itamar Ben Gvir ha annunciato che il suo partito, Potere ebraico, sospenderà a tempo indefinito il suo allineamento con la coalizione di governo in Parlamento sino a quando il premier Benjamin Netanyahu non avrà presentato tutti i dettagli del piano di tregua con Hamas annunciato pochi giorni fa “per conto di Israele” dal presidente americano Joe Biden. «Finché il primo ministro continuerà a nascondere i dettagli dell’accordo, Otzma Yehudit bloccherà la coalizione», ha detto Ben Gvir. È noto che le frange di ultradestra vedono ogni accordo che metta fine alla guerra Gaza prima della «distruzione completa» di Hamas come fumo negli occhi. Più incerta resta la posizione di Netanyahu, stretto nella morsa tra le pressioni mai così elevate dall’inizio della guerra degli Usa – oltre che delle famiglie degli ostaggi e dell’ampia fetta di società che scende in piazza per sostenerle – e quelle delle forze di destra. Resta tutta da capire, in ogni caso, anche la linea di Hamas sulla proposta di tregua.


Il fronte caldo col Libano

Il fronte per Israele più caldo – letteralmente – è stato però negli ultimi giorni quello nord, dove la selva di missili lanciata da Hezbollah ha causato una serie di gravi incendi – agevolati anche dal clima rovente – che i vigili del fuoco hanno faticato a domare. È nei pressi di quel confine che si è recato per questo oggi in visita Netanyahu. All’indomani del capo di stato maggiore dell’esercito Herzi Halevi, anche il premier ha lanciato il suo avvertimento alle milizie islamiste attive nel sud del Libano: «Chiunque pensi di poterci fare del male e che noi ce ne staremo seduti con le mani nelle mani si sbaglia di grosso», ha detto il premier visitando la città di Kiryat Shmona, in gran parte evacuata sin da quando – all’indomani del 7 ottobre – sono iniziati lanci pressoché quotidiani di razzi e droni da nord. «Siamo pronti ad un’azione molto forte: in un modo o nell’altro ripristineremo la sicurezza nel nord di Israele», ha chiosato Netanyahu, ringraziando per il loro lavoro i pompieri che sono riusciti a domare gli incendi dopo 48 ore di duro lavoro. L’esercito israeliano ha annunciato dal canto suo di aver risposto colpendo la scorsa notte due lanciatori di razzi e tre strutture militari di Hezbollah nel sud del Libano.


Guerra a Gaza: le manovre militari e quelle comunicative

Sul piano dell’organizzazione militare, intanto, il governo di Netanyahu dovrebbe votare oggi l’aumento da fine agosto della platea di riservisti mobilitabili da 300mila a 350mila, secondo quanto riportano i media. Decisione che, comunque, non ha «nulla a che vedere con la situazione in Libano», ha fatto sapere l’Idf, spiegando invece come essa sia legata se mai alle operazioni a Rafah. Secondo il ministero della Sanità di Gaza, gestito da Hamas e che non distingue tra civili e miliziani, dall’inizio della guerra sono 36.586 le persone rimaste uccise nella Striscia dal 7 ottobre, di cui 36 nelle ultime 24 ore. Un bilancio pesantissimo, a fronte del quale, secondo quanto ricostruito dal New York Times, le autorità israeliane avrebbero organizzato nei mesi scorsi una campagna di influenza negli Usa per promuovere le ragioni della guerra a Gaza e di Israele agli occhi del pubblico generale e dei decisori politici in particolare. Secondo il quotidiano Usa il ministero della Diaspora d’Israele avrebbe investito sulla campagna circa 2 milioni di dollari.

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