Europee 2024, chi vince e chi perde? Da Bardella a Ribera, i personaggi (e i Paesi) da tenere d’occhio per il futuro della Ue

Dalla Spagna alla Polonia, da Malta al Benelux, un viaggio virtuale tra i leader (emergenti e no) che definiranno il nuovo Parlamento: in queste elezioni e nei prossimi 5 anni

Ok, ci siamo. È il weekend delle elezioni europee. Qualche centinaio di partiti da Lisbona al Mar Nero, da Lampedusa alla Finlandia hanno dato fondo a tutte le loro cartucce per corteggiare oltre 370 milioni di elettori nella contesa per i 720 seggi del prossimo Parlamento europeo. Come orientarsi? Ovvero, come capire in base ai risultati di 27 Paesi chi avrà vinto e chi perso? Ursula von der Leyen, come noto, corre per una riconferma alla guida della Commissione. Se come suggeriscono i sondaggi a crescere un po’ ovunque saranno soprattutto i partiti sovranisti, si potrebbe prospettare un allargamento a destra della grande coalizione che ha retto le sorti dell’Unione negli ultimi cinque anni: coi Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni e la sua famiglia politica europea, Ecr (o una sua parte), primi indiziati a passare dall’opposizione al “governo” dell’Ue. Incognita immediatamente correlata: tre quarti dei partiti che hanno fatto parte della «maggioranza Ursula» – i liberali di Renew, i progressisti di S&D, i Verdi – hanno messo nero su bianco la loro indisponibilità a collaborare con forze di estrema destra. Una soluzione intermedia – specie se quello delle destre non sarà un vero e proprio «sfondamento» – potrebbe essere una sorta di “appoggio esterno” da parte del gruppo di Meloni, spiega a Open Nicoletta Pirozzi, responsabile per il programma sull’Ue all’Istituto Affari Internazionali. Ma solo nel caso di una crescita “moderata” delle destre nazional-populiste. Se quello consegnato dalle urne Ue dovesse rivelarsi un vero e proprio sfondamento, «si ridisegnerebbe la mappa politica prima, istituzionale poi, se non con un’alleanza formale con un allineamento strategico strutturale nel prossimo Parlamento tra Ppe e sovranisti», avverte Pirozzi, che al quadro ha appena dedicato il saggio L’Europa moderna (Linkiesta Books). Puzzle complicato, tenuto conto che per delinearlo prim’ancora che gli equilibri nel Parlamento europeo saranno decisivi quelli nel Consiglio europeo – l’organo che riunisce i 27 capi di Stato e di governo dove si negozierà e si nomineranno i prossimi responsabili dei vertici. Più che su incerti teoremi politici vale la pena allora concentrarsi sui personaggi chiave di quest’elezione. Perché a delineare gli equilibri politici dell’Ue nei prossimi anni saranno una serie di donne e uomini emergenti da un capo all’altro del continente. Abbiamo selezionato per voi i 7 più rilevanti. In rigoroso ordine alfabetico.


Jordan Bardella

28 anni, italiano per metà, è il volto nuovo della destra francese, ed europea. Marine Le Pen gli ha consegnato le chiavi del Rassemblement national – l’ex Front National fondato dal padre Jean-Marie – un anno e mezzo fa, a novembre 2022. Obiettivo: completare l’opera di dédiabolisation del partito cardine dell’estrema destra. Volto pulito, militante leale, under 30 come i giovani cui Le Pen si rivolge, Bardella è parso la scelta perfetta. Nato a Drancy, fuori Parigi, nel 1995 da Olivier, piccolo imprenditore, e Luisa Bertelli, dipendente pubblicata emigrata da Torino negli anni ’60, Bardella ha costruito su questo background famigliare un pezzo di carriera politica. Nella Francia in cui proviene da famiglie di origine straniera ben un cittadino su 4, lui di questo fa un punto d’onore», spiega a Open Marc Lazar, professore a Sciences Po e titolare della cattedra Bnl-Bnp Paribas alla Luiss. «Vedete, la mia famiglia ha voluto integrarsi, e io sono cresciuto come un fiero cittadino francese, perfino nazionalista», è il messaggio su cui martella Bardella, per marcare la frattura con quelle centinaia di migliaia di cittadini d’origine straniera – soprattutto araba – che in Francia rifusano di integrarsi. Dopo una legislatura al Parlamento europeo (da cui è stato invero parecchio assente), Bardella guida le liste dell’RN alle Europee e si prepara a incassare un trionfo: gli ultimi sondaggi lo danno attorno a uno “stellare” 33%, con la concreta possibilità di doppiare il partito che fa riferimento a Emmanuel Macron, Renaissance, che potrebbe fermarsi attorno al 16%. Per Le Pen, un passo intermedio cruciale nella marcia di avvicinamento all’Eliseo: dopo due sconfitte al ballottaggio, Marine nel 2027 punta davvero al ribaltone. Ma il patto tra i due – lei gli ha promesso in quel caso di nominarlo primo ministro – reggerà? O il giovane Bardella alzerà le pretese costruendo la “sua” agenda politica dopo il probabile trionfo delle Europee? Ancora Lazar: «Per il momento s’intuisce appena qualche differenza di linea politica tra i due. Bardella è sicuramente molto attratto da Meloni, viene spesso a Roma a incontrare dirigenti di FdI (l’alleato formale in Italia di RN è la Lega, ndr). E parrebbe tentato di replicare in Francia il “modello” Meloni: un’unità delle destre – dai Républicains (gollisti) a Reconquete (destra dura di Eric Zemmour) – sotto la guida dell’RN». Scenario che non piace a Le Pen, che punta al successo in solitaria della sua creatura. «Ma escludo che Bardella possa aprire le ostilità con Le Pen da lunedì, sarebbe pazzo se tentasse ora di metterla da parte. E non lo è», afferma il politologo.


Bas Eickhout 

Destra, centro, sinistra. Ma che fine hanno fatto i Verdi? In Italia sono sempre stati un piccolo partito, ma in altri Paesi d’Europa tutt’altro. Due esempi su tutti: Germania e Olanda. Non a caso è da qui che provengono i due co-leader della famiglia dei Verdi europei per queste Europee: la 37enne tedesca Terry Reintke (che all’euro-dibattito tra i candidati ha fatto un figurone) e il 48enne olandese Bas Eickhout. Originario di Groesbeek, un paesino a due passi dal confine con la Germania, Eickhout è un veterano del Parlamento europeo, dove siede ininterrottamente dal 2009, e in queste elezioni si è caricato sulle spalle una doppia responsabilità. Da un lato deve tenere a galla i Verdi europei, cercando per lo meno di limitare i danni del possibile calo di consensi rispetto al 2019 (l’ultimo macro-sondaggio li accredita di 55 seggi, 16 in meno rispetto al Parlamento europeo uscente). Greta Thunberg riempiva le piazze d’Europa cinque anni fa, «costringendo» le nuove istituzioni Ue a fare della lotta al cambiamento climatico uno degli obiettivi chiave. Una pandemia e due guerre dopo, il vento è cambiato, e agricoltori e destre hanno dato l’assalto – con un certo successo – al Green Deal. I Verdi vogliono salvarlo, e rilanciarlo. Ma la scommessa di Eickhout vale doppio, perché l’ex ricercatore in materie ambientali ha guidato nel suo Paese le liste dell’Alleanza “rosso-verde” composta da Socialisti e Verdi dopo il trauma della sconfitta dell’ex Commissario Ue Frans Timmermans alle elezioni dello scorso novembre. Dopo mesi di gestazione, in Olanda sta per vedere la luce un governo a forte trazione di destra la cui prima forza sarà il Partito della Libertà dello xenofobo Geert Wilders. Arrivare davanti a lui alle Europee vorrebbe dire segnalare che il fronte verde/progressista è ancora vivo e vegeto: in Olanda, e in Europa. E per il centrosinistra Ue del 2024 sarebbe già molto.

Roberta Metsola

Gli incarichi apicali dell’Unione, si sa, sono tre: presidente della Commissione, presidente del Consiglio europeo, presidente del Parlamento europeo. Tutti e tre i leader che li hanno ricoperti nell’ultima legislatura sono nel pieno della loro carriera politica e dunque sperano di proseguirla con altri importanti nomine. Eppure c’è una differenza di fondo che distingue Roberta Metsola da Charles Michel e Ursula von der Leyen: lei è l’unica dei tre ad essere «ripartita da capo», candidandosi per un seggio al Parlamento europeo nella sua Malta. Fisiologico da un certo punto di vista, tenendo conto che per presiedere l’Assemblea di Strasburgo – incarico che la 45enne maltese ha ricoperto negli ultimi due anni e mezzo e punta a mantenere – è indispensabile farne parte come deputato/a. Eppure la scelta di Metsola, e la distanza con quelle degli altri due presidenti uscenti, è indicativa pure del rispettivo stato di forma politico. 45 anni, avvocato, militante sin da giovane del Partito nazionalista maltese, Metsola è entrata al Parlamento europeo nel 2013 ma la sua stella nel Ppe è sorta nell’ultima legislatura. Si è costruita il consenso interno al gruppo per mirare a inizio 2022 alla presidenza dell’Assemblea, che spettava al Ppe secondo l’accordo con S&D dopo il termine del mandato di David Sassoli. E da lì s’è fatta conoscere come leader ferma e sorridente al grande pubblico europeo, visitando Kiev – prima tra tutti i leader Ue – dopo poco più di un mese appena dall’inizio della guerra, rispondendo con durezza (fin troppa?) allo scandalo interno del Qatargate e dialogando con profitto con tutti gli altri gruppi politici. Quindi s’è rimboccata le maniche, senza chiedere nulla se non un nuovo seggio ai suoi elettori maltesi. Se il Ppe sarà confermato primo partito d’Europa, tornare alla guida del Parlamento europeo pare un traguardo a portata di mano. Ma se la scommessa per un bis di Ursula von der Leyen alla guida della Commissione dovesse finire male, preda dei veti incrociati, il segreto di Pulcinella nei corridoi di Bruxelles è che il «nome nascosto» dei popolari per uscire dallo stallo potrebbe essere proprio il suo.

Teresa Ribera

I governi a guida socialdemocratica in Europa ormai si contano sulle dita di una mano. La Spagna di Pedro Sanchez è ormai quanto di più simile all’eccezione che conferma la regola in una mappa politica europea sempre più tendente a destra. Sanchez stesso è riuscito, pur con numeri fragilissimi, a reggere l’assalto elettorale di popolari e sovranisti alle ultime elezioni politiche, ed è determinato a tenere alto il nome e i valori del gruppo S&D anche a livello europeo. In Consiglio europeo, ci proverà facendo squadra col tedesco Olaf Scholz (che guida però una coalizione fragile e litigiosa) e con la danese Mette Frederiksen. E per la prossima Commissione, la cui presidenza appare scontato andrà al Ppe, ha già messo le mani avanti. La Spagna è infatti l’unico Paese ad aver già reso esplicito sia il nome del suo candidato Commissario, sia il portafoglio cui ambisce. Sarà Teresa Ribera, vicepremier, ministra della Transizione ecologica e capolista del Psoe alle Europee. Con un mese pieno d’anticipo sulle elezioni, la giurista 55enne ha «prenotato» la delega alla guida del Green Deal, con un obiettivo chiaro: salvare l’ambizioso piano Ue di transizione ecologica dal ridimensionamento che vorrebbero le destre, e anzi rilanciarlo affiancandogli una solida dimensione sociale per assicurarsi che a pagarne il conto non siano le classi medio-basse. «Dobbiamo fare molto di più, e sarei più che felice di continuare a lavorare per quest’agenda a Bruxelles», si è auto-lanciata la vice di Sanchez con un’intervista a Politico. La scommessa spagnola, anche per conto dei socialisti del resto d’Europa, è lanciata.

Donald Tusk 

Impossible is nothing. Non è solo lo storico motto di un noto marchio sportivo. Calza a pennello pure per descrivere quanto è accaduto in Polonia lo scorso anno. I sovranisti di Diritto e Giustizia (Pis), alleati dei Fratelli d’Italia di Meloni, parevano aver costruito un sistema di potere inscalfibile, costruito sulla difesa dei “valori tradizionali”, generosi sussidi alle famiglie, un’accesa propaganda anti-Ue e anti-migranti e un controllo pervasivo pure sui media (pubblici e non solo) e sulla magistratura. Per questo Bruxelles e Varsavia erano entrate in rotta di collisione, con l’apertura di una inedita procedura (art. 7) per «gravi e persistenti violazioni dello stato di diritto». Già primo ministro dal 2007 al 2014, poi approdato a importanti incarichi Ue, Tusk s’è ributtato nella mischia dal 2021, e alle elezioni dello scorso ottobre ha fatto con la sua “Coalizione civica” il miracolo: da dicembre è tornato alla guida del Paese, e dunque a sedere pure al tavolo del Consiglio europeo. Istituzione che conosce come le sue tasche, avendola guidata dal 2014 al 2019 (dopo averne fatte parte per i 7 precedenti anni da premier). La sua voce in capitolo come leader senior del Ppe sarà molto rilevante nei negoziati per le nomine subito dopo il voto, ma anche in tutte le altre partite strategiche dei prossimi anni. Non solo per l’aura da «eroe della democrazia» che s’è guadagnato da ottobre, ma pure per il ruolo «d’avanguardia» della Polonia nella sfida che segna l’Ue (e la Nato) di questi anni: il sostegno all’Ucraina e il confronto con la Russia di Vladimir Putin. Non a caso il nome più in voga dietro le quinte per ricoprire il prossimo incarico di Alto rappresentante per la politica estera o quello di Commissario alla Difesa è quello di un fedelissimo di Tusk (e dell’Ue): l’attuale ministro degli Esteri di Varsavia Radoslaw Sikorski. Prima, però, la loro Piattaforma civica deve bissare il successo di ottobre sul Pis nelle elezioni di questo weekend.

Tom Van Grieken

Domenica in Belgio non si vota solo per le Europee, ma anche per le politiche e per le amministrative. Un grande election day «alla belga», perché in quel complesso sistema federale si vota divisi per regioni. In ciascuna delle tre – Fiandre, Bruxelles, Vallonia – si contendono diversi partiti e si formano diverse maggioranze. Poi, sul piano nazionale, i partiti architettano accordi spesso complessi e delicati per dar forma a un governo federale che tenga conto dei diversi risultati. Il dato politico più rilevante secondo i sondaggi pre-voto è però cristallino: nelle Fiandre si attende un vero boom dell’estrema destra. Il partito più votato dovrebbe essere il Vlaams Belang (“Interesse fiammingo”), che propone una linea durissima sui migranti e l’indipendenza delle Fiandre – ossia in ultimo la «rottura ordinata» del Belgio stesso. Alla guida del partito è Tom Van Grieken. 37 anni, pubblicitario di Anversa prima di darsi alla politica, Van Grieken ha preso le redini di Vlaams Belang giovanissimo, nel 2014, e ha cercato con un certo successo di «ripulirne» la reputazione pur senza rinunciare ai toni duri. Per questo Politico l’ha definito “il Bardella belga”. Il suo VB è accreditato di oltre un quarto delle preferenze (oltre il 25%), e appena dietro dovrebbe piazzarsi l’altro partito di destra nazionalista N-VA (20%). In Vallonia il quadro politico è completamente diverso – dovrebbero arrivare in testa i Socialisti, seguiti da liberali e sinistra radicale – ma sembra certo che i nazionalisti fiamminghi influiranno pesantemente sulla composizione del prossimo governo (il primo ministro uscente è il liberale Alexander De Croo). Ancor più interessante l’impatto che il VB potrebbe avere sul prossimo Parlamento europeo: considerata la piccola taglia del Belgio, il partito eleggerà solo una manciata di europarlamentari. Eppure dalle sue scelte post-voto di Van Grieken e dei suoi potrebbe dipendere un pezzo del futuro delle destre europee. La ragione è presto detta: per vedere la luce un gruppo politico al Parlamento europeo deve contare su almeno 23 deputati di 7 Paesi diversi. Ma dopo l’espulsione di Afd su impulso del Rassemblement National, per via delle ambiguità sul nazismo, al momento in Identità e democrazia restano 7 partiti “giusti giusti”. E nelle settimane prima del voto il leader di VB al Parlamento europeo, Gerolf Annemans, ha detto apertamente di guardare ad altri scenari, tra cui la costruzione di un «supergruppo» delle destre o magari di un altro raggruppamento ancor più radicale.

Sahra Wagenknecht

Memorizzare il suo nome potrebbe non essere semplicissimo, ma rischia di diventare necessario. Perché la Germania colpita al cuore dalla guerra all’Ucraina – ha dovuto rinunciare in un colpo solo al caposaldo della sua economia, l’import di gas e petrolio da Mosca, e della sua politica estera, l’irrilevanza del suo esercito – è scossa da fremiti politici preoccupanti. Quel che accade a destra, col boom dell’Afd, è noto. Ma nel medio termine i grattacapi per il governo di Olaf Scholz potrebbero arrivare anche da sinistra. All’alba dei 54 anni, alle spalle studi in filosofia e un dottorato in economia, poi una lunga carriera politica nelle file della sinistra, l’ex capogruppo di Die Linke s’è messa in proprio. A gennaio ha lanciato il partito che porta il suo nome, l’Alleanza Sahra Wagenknecht (BSW), e nel giro di pochi mesi s’è ritagliata uno spazio di tutto rispetto: secondo i sondaggi potrebbe balzare alle Europee già al 7%. La sua ricetta è tanto sui generis quanto degna di nota, perché altri in Europa già si sono messi sulle sue orme – o potrebbero farlo presto. Wagenknecht si presenta come una leader di sinistra «classica» sul terreno economico-sociale, perché chiede salari e pensioni più «dignitosi» per i lavoratori e un welfare State più generoso. Non per tutti però. Perché dall’altra parte la 54enne ha mutuato dalla narrazione di destra l’opposizione all’immigrazione «sregolata», vista come strumento di sfruttamento delle masse da parte delle «élites». Martella volentieri pure contro il «dogma» progressista della transizione ecologica e delle politiche verdi, e per quanto accade ai confini dell’Ue predica la fine della guerra in Ucraina tramite l’apertura «immediata» di negoziati di pace con Putin. Un «pacchetto politico» molto particolare appunto, i cui frutti alla prima prova elettorale molti in Europa guarderanno. Il premier slovacco Robert Fico, sopravvissuto a un recente attentato, predica simili ricette rossobrune. Troveranno presto altri compagni di strada o si riveleranno delle meteori politiche?

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