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La bufala di Oriana Fallaci, Berlusconi furioso sul parrucchino e Travaglio nel mirino di Fassino: ecco le memorie di Antonio Padellaro

23 Giugno 2024 - 14:57 Franco Bechis
Contraddizioni e curiosità di 50 anni da giornalista in “Tutta la verità, lo giuro” (Piemme)

Racconta Antonio Padellaro che molti anni fa Oriana Fallaci, già famosa e in quel momento star del settimanale Europeo, fu spedita a New York a raccontare una strage di mafia. Arrivata nella Grande Mela Fallaci che poco o nulla sapeva della mafia negli States chiese lumi al capo dell’ufficio americano della Rizzoli, che le spiegò: «Sono stati i giovani turchi», alludendo alla nuova e spietata generazione di mafiosi in lotta contro i vecchi capi dell’epoca, i vari Jose Bonanno e Lucky Luciano. La Fallaci si fidò, ma non capì l’allusione e prese l’informazione alla lettera. Ne uscì un reportage sull’espandersi a New York di una sconosciuta mafia turca che stava scalzando italiani ed irlandesi. Una bufala. Ma essendo Fallaci a scriverne, nessuno osò ipotizzare l’errore. Anzi, i direttori dei giornali fecero loro una ramanzina perché nessuno di loro aveva capito l’esplosione di questa sedicente mafia turca.

Oriana Fallaci, Ansa, foto d’archivio

L’assassinio di Pasolini: «Scrivi che sono stati i fascisti»

Quello sulla bufala della Fallaci è uno degli episodi più divertenti di Solo la verità, lo giuro, un collage di 50 anni di esperienza da giornalista che il fondatore del Fatto Quotidiano ha scritto per Piemme. Oriana deve essere stata un rapporto difficile di Padellaro, e spunta spesso fra i ricordi, come nel giorno in cui fu ucciso Pier Paolo Pasolini. Delitto ancora oggi pieno di misteri, ma subito la Fallaci, che nel frattempo era diventata firma di punta del Corriere della Sera, ebbe una sua idea chiara, manifestata in una sorta di ordine dato al telefono allo stesso Padellaro: «Sono stati i fascisti. Scrivilo, in prima pagina». Nessun elemento però emergeva a sostegno di questa tesi mentre gli inquirenti avevano raccolto subito la confessione di Pino Pelosi, che negli anni avrebbe più volte ritrattato, ma alla fine sarebbe stato condannato per quel delitto. Padellaro non scrisse né titolò sui fascisti e da quel giorno l’Oriana sdegnata non gli avrebbe più rivolto la parola.

Pier Paolo Pasolini, il secondo da sinistra, Ansa, foto di arcihvio

La furia di Fassino per la rubrica di Marco Travaglio

Le memorie di Padellaro uniscono appunti sparsi su decenni di giornalismo. E i ricordi più sepolti nel tempo si mischiano a quelli più recenti che raccontano all’inizio di ogni capitolo la fondazione del Fatto Quotidiano con Marco Travaglio e i momenti chiave di quella nuova esperienza. I due giornalisti si erano conosciuti molto tempo prima (entrambi hanno lavorato per L’Espresso) e quando Padellaro diventò direttore de L’Unità all’epoca organo politico dei Democratici di sinistra (Ds), offrì a Travaglio una rubrica quotidiana (Bananas) al fulmicotone sulle gesta di Silvio Berlusconi. Racconta l’autore: «Ogni qualvolta Travaglio scriveva qualcosa contro Berlusconi, non in linea con qualche inciucio della sinistra, il mattino successivo, cascasse il mondo, squillava il telefono e un’apprensiva voce femminile scandiva il mio incombente destino: “Ti passo Piero Fassino (allora segretario dei Ds, ndr)”». E la telefonata era piena di veleni sul suo modo di dirigere il giornale di partito. Poi qualcuno disse a Padellaro che Fassino soffriva di pressione bassa e per questo al mattino era più acido. Soluzione: inventarsi scuse per non rispondergli mai in quelle ore della giornata, richiamandolo il pomeriggio quando «Piero rispondeva dimentico del motivo che lo aveva scatenato di buon mattino».

Marco Travaglio, Ansa, foto d’archivio

Gli imbarazzi nell’incontro con l’avvocato dei misteri di Sicilia e Giorgio Almirante

Quando ero ancora un ragazzino (ho qualche anno meno dell’autore del libro), ricordo bene un paludatissimo Padellaro da capo della redazione romana del Corriere della Sera nelle tribune politiche della Rai ancora in bianco nero a intervistare i leader di partito. Toni garbati, domande mai pungenti: lo stile dell’epoca. Chi le guardasse oggi faticherebbe a riconoscere la stessa persona, salvo per il garbo che continua ad accompagnare stilettate e pungenti reprimende di chi è passato dall’altra parte della barricata. Eppure, quelle due vite (il giornalista paludato nato in buona famiglia con radici anche nel fascismo e il Che Guevara dei nuovi tempi) spesso si scontrano nella sua coscienza o emergono contraddittorie negli incontri imprevisti. «Ma lei non è il figlio o il discendente di…?», emergono con un certo imbarazzo più volte fra gli appunti ma due volte in particolare. La prima durante un colloquio con «l’avvocato dei misteri della Sicilia», Vito Guarrasi, l’uomo che firmò in Libia per conto dei siciliani gli accordi sullo sbarco degli americani a Pachino (lo conobbi anche io e per qualche anno fu mia fonte preziosa grazie a una lontana parentela che scoprimmo). La seconda durante una intervista a Giorgio Almirante, il segretario del Msi che cercò di fare emergere le comuni radici familiari.

Il parrucchino (falso) e la rabbia di Silvio Berlusconi

È una storia di contraddizioni quella del Padellaro giornalista, divulgate con grande franchezza in queste pagine. Contraddittorio avere amato e stimato uno dei più grandi giornalisti e all’epoca direttore del Corriere della Sera, Franco Di Bella, causandone però involontariamente la fine professionale essendo stato Padellaro a portare in redazione i famosi elenchi della P2 in cui Di Bella risultava coinvolto. Contraddittorio anche il rapporto con Berlusconi, di cui riconosceva il fascino e di cui lo colpiva la cortesia nonostante la pubblicazione di paginate di inchieste, atti giudiziari e commenti roboanti. Una sola volta però se la prese con lui il Cavaliere, e non per gli atti di Ruby Rubacuori o per le campagne al curaro del Fatto quotidiano. Quel giorno arrivò la furia del Cavaliere: «Direttore, avete pubblicato una menzogna!». Padellaro gli chiese: «Quale, presidente?». E Berlusconi rispose: «Avete scritto che indosso un parrucchino. La invito qui da me e l’autorizzo a verificare con le sue mani se i miei capelli sono veri o finti. Dopodiché mi aspetto delle pubbliche scuse».

Silvio Berlusconi, Ansa, foto d’archivio

Senza Cav terremoto anche alle copie del Fatto quotidiano

Berlusconi è stato un faro nella seconda vita professionale di Padellaro, tanto è che quando la sua luce si spense con il brusco passaggio di consegne a Mario Monti nel 2011 il direttore del Fatto Quotidiano teme per le straordinarie fortune parallele a quelle del Cav della sua creatura editoriale. Il racconto che fa di quelle ore lo testimonia con grande sincerità. «Ricordo», scrive Padellaro, «che nel 2011, la sera della sua uscita definitiva da Palazzo Chigi e dell’avvento del molto sobrio Mario Monti vengo accolto in redazione da una specie di festicciola con brindisi e champagne inneggiante alla caduta del despota. M’incazzo di brutto: siete davvero scemi, non capite che stiamo tagliando il ramo su cui per anni siamo stati seduti comodamente? Il Fatto continua a vendere bene, intendiamoci, ma non più come prima. I conti sono in regola ma la navigazione tra costi crescenti e introiti calanti si fa meno tranquilla…».

Mario Monti e Silvio Berlusconi, Ansa, foto di archivio

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