Nomine Ue, cosa c’è dietro la rabbia di Giorgia Meloni: «Ora von der Leyen dovrà guadagnarsi il nostro voto». Ma c’è il rischio flop

La premier punta il voto del 18 luglio: con i franchi tiratori Ursula al rischio. Ma il piano potrebbe fallire. Perché il suo gruppo è diviso. E lei potrebbe rimanere con il cerino acceso in mano

«Ora qualcuno si accorge che l’Italia esiste». In queste poche parole riportate in un retroscena c’è tutta la strategia di Giorgia Meloni sulle nomine Ue. La decisione di dire no ad Antonio Costa e a Kaja Kallas, ovvero i nomi dei socialisti e dei liberali per i Top Jobs Ue, è strettamente collegata a quella più importante. Ovvero l’astensione su Ursula von der Leyen presidente della Commissione Europea. «La proposta è sbagliata nel metodo e nel merito. Ho deciso di non sostenerla per rispetto dei cittadini», scrive la presidente del Consiglio sui social network a mezzanotte. Ma poi aggiunge: «Continuiamo a lavorare per dare finalmente all’Italia il peso che le compete in Europa». E in questa frase c’è il cuore della strategia di Palazzo Chigi.


Per cosa è arrabbiata Giorgia

«Vogliono andare avanti senza di noi», diceva la premier qualche giorno fa. Di che parlava? Nella partita delle nomine Ue ci sono in ballo una vicepresidenza di peso della Commissione e un commissario. I posti e i nomi sono più o meno già decisi: il ministro degli Affari Regionali Raffaele Fitto potrebbe ricevere una delega all’attuazione del Pnrr. Altrimenti Guido Crosetto potrebbe ricevere quelle per la Difesa. Per il posto di commissario la proposta dell’Italia è Elisabetta Belloni. Ma c’è la Francia di Emmanuel Macron. Che vuole le stesse deleghe per la vicepresidenza. E nel frattempo ha raggiunto l’accordo con Socialisti e Popolari con il suo Renew. Partita persa, quindi? Non ancora, è il ragionamento che arriva da Bruxelles. Perché proprio l’astensione annunciata su Ursula potrebbe cambiare le cose. E pazienza se la sua posizione nel Consiglio Europeo è sembrata più a destra rispetto a quella di Viktor Orbán, che almeno un sì a Costa lo ha pronunciato.


Il voto del 18 luglio

La data segnata sul calendario è quella del 18 luglio prossimo. Quel giorno il parlamento europeo si riunirà per dire sì o no a von der Leyen come presidente della Commissione Europea. E l’ex ministra della Difesa tedesca ricorda benissimo quello che accadde cinque anni fa. Quando si presentò al voto forte di una maggioranza di 444 voti. Anzi, di 483 visto che nel frattempo avevano annunciato il loro sì a Ursula anche i gruppi europei del Movimento 5 Stelle e i polacchi di Destra e Giustizia. Alla fine il risultato fu ben più misero: 383 voti, appena nove in più della soglia minima. E ben cento in meno del conto totale. Oggi il magic number è fissato a 361 e Popolari, Socialisti e Liberali possono contare su 399 voti. Basterebbero per ogni elezione in tutto il mondo. Tranne che al parlamento europeo, dove i franchi tiratori sono all’ordine del giorno.

La strategia di Meloni

E allora eccola, la strategia dell’astensione di Meloni riportata oggi in un retroscena de La Stampa. «Se Ursula vuole mettersi al riparo dai franchi tiratori dovrà guadagnarsi il nostro voto», è il ragionamento dei fedelissimi della premier. E quindi la battaglia per ottenere uno o due commissari di peso comincia solo adesso. Come? Facendo cambiare idea al gruppo Ecr, i conservatori che oggi vogliono astenersi e domani potrebbero invece annunciare il loro sì a Ursula. Assicurando così un’elezione tranquilla e al riparo da trappole. In cambio delle nomine chieste dall’Italia. Altrimenti, è il ragionamento, il voto di Strasburgo potrebbe bocciare in toto l’intero accordo sui Top Jobs, non soltanto la presidente della Commissione. E si dovrebbe ricominciare da capo. Probabilmente con un’altra maggioranza. Spostata più a destra, visto che il partito perno dell’accordo sono i Popolari.

Cosa può andare storto

Tuttavia la strada è stretta. E molto può andare storto in questi venti giorni che mancano al voto. Perché alla fine gli unici paesi che hanno seguito Meloni nel no alle nomine sono stati Slovacchia e Ungheria. Non esattamente Stati centrali dell’Unione Europea. Anzi, si tratta di paesi che spesso sono finiti sulla graticola per la loro vicinanza al nemico esterno più temuto: Vladimir Putin. Non solo. Perché anche i Conservatori al loro interno sono divisi. Il ceco Pietr Fiala ha annunciato il suo sì all’accordo in consiglio. E questo prelude a un ok anche in Parlamento. Mentre i polacchi di Diritto e Giustizia stanno valutando l’addio a Ecr dopo le liti interne per le poltrone. I polacchi toglierebbero 20 deputati agli 83 totali. Insieme a gran parte del potere di ricatto del gruppo.

In bilico tra vittoria e flop

Ecco quindi che per il 18 luglio ci sono due scenari. Nel primo Meloni riesce a giocare bene le sue carte e a “vendere” l’appoggio di Ecr (o almeno dei deputati di FdI) a Ursula in cambio dei due posti che la premier vuole. Nell’altro Ursula decide di prendersi il rischio di entrare a Strasburgo senza l’assicurazione sulla vita dei voti fuori della maggioranza e si gioca la sua partita sulla fedeltà di Popolari, Socialisti e Liberali. Se von der Leyen non ce la fa, si avvera la profezia di Meloni di qualche giorno fa: ovvero quella di una classe dirigente europea già bocciata alle urne che si assume la responsabilità di un fallimento e le trattative ripartono dall’inizio. Oppure Ursula ce la fa. E in quel caso il flop sarebbe tutto di Giorgia.

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