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Satnam Singh, tutte le bugie di Antonello Lovato: «L’ho portato a casa perché me l’ha chiesto la moglie, ho verificato che chiamassero l’ambulanza»

02 Luglio 2024 - 16:42 Sara Menafra
Nell'ordinanza di arresto per il datore di lavoro del bracciante di Latina morto dissanguato, la ricostruzione di quel giorno e di come, se soccorso, Singh avrebbe potuto essere salvato

Satnam Singh poteva essere salvato se fosse stato soccorso immediatamente. E’ l’accusa più pesante tra quelle contenute nell’ordinanza di custodia cautelare che oggi ha portato all’arresto di Antonello Lovato, l’imprenditore della provincia di Latina che impiegava in nero il bracciante, morto dopo aver subito l’amputazione del braccio. Lovato deve rispondere di omicidio colposo e omissione di soccorso.

Oltre ai dati sanitari che parlano di come l’amputazione di un arto, se prontamente arginata, può non essere mortale, a colpire è la ricostruzione dei fatti data da Lovato. Sulla dinamica dell’incidente – lui dice che Satnam lo aiutava mentre la moglie, Soni, dice che era la vittima a manovrare l’attrezzo agricolo che l’ha ucciso – ma soprattutto sulla decisione di non chiamare i soccorsi. «Non ho chiamato l’ambulanza perché la moglie diceva di portarlo a casa. Per questo, l’ho caricato sul furgone Mercedes di famiglia e, unitamente alla moglie, preso dal panico l’ho portato a casa, dove sapevo che avevano già chiamato l’ambulanza. Dopo essere arrivati a casa, assicuratomi che avevano chiamato l’ambulanza, preso dal panico sono andato via», racconta Lovato al pm, dicendo più volte di quanto l’accaduto l’abbia sconvolto.

Lovato e la fuga da casa Singh

Tutti i testimoni sentiti dai carabinieri quel giorno, il 17 giugno scorso, raccontano però un’altra versione dei fatti. Una versione in cui Lovato porta i coniugi Singh a casa, sebbene la moglie di Satnam lo implorasse di chiamare i soccorsi. E, arrivato davanti all’abitazione dei due avrebbe abbandonato l’uomo, il braccio e parte della sua mano in due diverse cassette per la frutta. «L’uomo che guidava il furgone (Antonello Lovato, ndr), una volta trasportato il mio vicino presso la sua abitazione, iniziava a correre in direzione del furgone. Per comprendere meglio la situazione chiedevo spiegazioni a quest’ultimo ma non mi riferiva nulla. L’uomo a noi sconosciuto faceva il gesto del dito davanti la bocca, come per dirci di stare zitti», dice un testimone. A cui fa eco un altro: «Notavo che in quel momento passava a passo svelto, nel vialetto che fiancheggia la mia abitazione, un uomo con in braccio il marito [di Soni Singh ndr]. Quasi subito lo stesso uomo, dopo aver posato il corpo, iniziava a correre verso la strada dove era parcheggiato un furgone bianco, con le portiere posteriori aperte, proprio con l’intenzione di scappare».

«Indole sprezzante della vita umana»

Il giudizio del gip di Latina, Giuseppe Molfese, è molto duro. Lovato ha mostrato, scrive, «un’indole insensibile e sprezzante della vita umana». Quanto compiuto, «valutato nel complesso, lascia presumere che egli volesse occultare quanto accaduto per evitare che venissero alla luce le condizioni di irregolarità e sfruttamento nelle quali versava il lavoratore, nonché la gravissima situazione di irregolarità dell’azienda sotto il profilo della sicurezza e della salute sul lavoro». Se non fosse in carcere, Lovato potrebbe pressare i testimoni per far loro cambiare versione. «Prescindendo da valutazioni etiche, che pure si imporrebbero a fronte di una condotta disumana e lesiva dei più basilari valori di solidarietà,  l’indagato si è intenzionalmente e volontariamente disinteressato delle probabili conseguenze del suo agire».

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