Schiaffi, calci e sculacciate ai figli ma il tribunale li assolve: «Vivevano in un campo rom, lì la violenza è un connotato»
Una coppia di genitori di cittadinanza romena è finita a processo a Torino con l’accusa di maltrattamenti di tre figlie, tutte minori di dieci anni. In primo grado sono stati condannati a due anni e sei mesi di carcere. Ma la Corte di Appello li ha assolti «perché il fatto non costituisce reato». Anche se i genitori colpivano spesso i figli con schiaffi e sculacciate, secondo i giudici lo facevano perché lo consideravano come «l’unico strumento disponibile per garantire ordine e disciplina in seno alla famiglia e/o nei rapporti tra le bambine». E lo facevano «percuotendole ripetutamente con schiaffi, calci, utilizzando anche oggetti; trascurandole nell’igiene e nella cura». E «litigando violentemente tra di loro alla presenza delle bambine», minori di dieci anni.
I maltrattamenti nel campo rom
L’edizione torinese del Corriere della Sera spiega che i giudici hanno valutato il contesto dei presunti maltrattamenti: «Il clima di violenza mi sembrava accettato come un dato di fatto, ma sono bambini che vivevano in un campo rom, dove la violenza è un connotato», ha detto al processo un neuropsichiatra infantile. «Quanto alle percosse inflitte, le peculiari condizioni del contesto familiare fanno insorgere notevoli dubbi sulla coscienza e la volontà di sottoporre le figlie a qualsivoglia forma di maltrattamento rilevante agli effetti dell’articolo 572 del codice penale», ha scritto il presidente della Corte d’Appello Carlo Gnocchi.
E ancora: «Piuttosto, da una parte, il sostanziale riferimento monogenitoriale delle minori —di fatto seguite e curate dalla sola madre (sovente percossa dal marito) — e le inevitabili conseguenti maggiori difficoltà nella guida e nella educazione delle stesse minori, e, dall’altra parte, le oggettive difficoltà dovute all’elevato numero di figli in tenera età e alla relativa fisiologica esuberanza, integrano fattori» che hanno portato all’assoluzione.
Il regime di vessazione
Anche perché secondo i giudici «un simile assunto si rivela in qualche modo corroborato dalle attenzioni e dalle manifestazioni di affetto di cui si dimostrano capaci nei confronti delle figlie gli imputati, i quali, pertanto, sapevano assumere (e assumevano) anche quel ruolo di amorevoli genitori che, in quanto tale, non appare compatibile con la consapevolezza e l’intenzione di sottoporre le proprie figlie a un regime di vessazione e di sofferenza morale».
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