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Non solo Airbnb, anche gli affitti a medio-termine stanno plasmando le città: «Sempre più sfruttate, sempre meno abitate» – L’intervista

I contratti di locazione transitori vengono tenuti fuori dalle analisi sulle storture del mercato. Un errore, spiega a Open il docente della Sapienza Filippo Celata

Chi negli ultimi mesi ha avuto bisogno di una casa in una grande città lo sa bene: trovare un tetto sopra la testa trascina con sé interminabili attese, ricerche estenuanti, esborsi vertiginosi e spesso proibitivi. Il mercato immobiliare, nazionale e non solo, è una giungla dove sopravvive solo il più economicamente forte: lo hanno denunciato a gran voce gli studenti in tenda fuori il Politecnico di Milano, le ricerche sulla crisi abitativa, gli attacchi politici al governo sul tema. Ma poco o nulla sembra migliorare. Lo stallo, secondo gli esperti in materia, potrebbe derivare in parte dalla sottovalutazione di un aspetto: quello degli affitti a medio-termine. Al contrario delle storture provocate dai soggiorni brevi, come quelli veicolati da Airbnb, i contratti di locazione transitori vengono infatti tenuti fuori dalle analisi, e questo è un errore che potremmo pagare a caro prezzo tra pochi anni. Il professor Filippo Celata, dottore di ricerca in geografia economica e professore ordinario di Economic Geography, Sviluppo locale e Spatial Data Analysis presso l’Università romana La Sapienza, ci ha spiegato perché.

Professore, cosa intendiamo con “affitti a medio-termine”?

«Quando parliamo di affitti a “medio-termine” si parla di contratti transitori, con una durata che va da 1 a 18 mesi. Avere numeri sul fenomeno è molto complicato: non esistono fonti che offrono informazioni ufficiali. Al contrario di quello che accade con gli affitti a breve termine, quelli tipici di AirBnb per capirci, che vanno da 1 a 30 giorni. Nel caso dei contratti transitori, i numeri vanno ricavati. Il dossier Di casa a Roma – Un’indagine sull’abitare, pubblicato il 27 marzo 2024 e a cui ha contribuito la dottoressa Barbara Brollo (con cui lavoro), ci dice che nel 2016 a Roma i contratti con durata inferiore ad un anno erano 105.248. Nel 2022, erano diventati 143.032. Parliamo di un balzo in avanti del 35%, a fronte di una decrescita dei contratti di durata maggiore e delle locazioni in generale».

A cosa si deve questa crescita?

«Il contratto transitorio nasce come tipologia contrattuale “eccezionale”. Inizialmente erano tamponi per situazioni transitorie, in attesa di un intervento legislativo che favorisse gli affitti a lungo termine. Il proprietario di casa era tenuto a fornire informazioni che dimostrassero perché era costretto a ricorrere al contratto transitorio: una figlia che si sarebbe sposata e avrebbe voluto traslocare nel giro di un anno, ad esempio. Adesso si è detto che l’esigenza di brevità può essere dimostrata anche dal locatario, e questo ha aumentato notevolmente la loro diffusione. Nei fatti, però, questa formula è preclusa ai residenti. Ci sono casi di persone che spostano la residenza pur di riuscire a trovare un appartamento».

Perché chi ha in programma di rimanere a lungo in città dovrebbe preferire questa tipologia di contratti?

«Non la preferiscono, ma non hanno alternative. In un’epoca di inflazione e aumento dei canoni di locazione, i proprietari hanno modo di negoziare o rideterminare annualmente le cifre richieste, e per loro non è conveniente puntare sugli affitti a lungo termine. Anche perché li percepiscono come più rischiosi: si possono configurare condizioni di morosità, non ci sono abbastanza garanzie da parte dello Stato, anche a fronte di morosi la strada dello sfratto appare irrealizzabile… i proprietari si guardano allo specchio e si chiedono: ‘Ma chi me lo fa fare?’. C’è poi una questione legislativa: in Italia, i contratti transitori sono quasi agevolati. Si applica la cedolare secca, che sostanzialmente porta a tassazioni mitigate».

E dal punto di vista della domanda, chi sono i soggetti interessati a sistemazioni provvisorie?

«Si dividono in varie tipologie. Innanzitutto ci sono i fuorisede, che sappiamo essere in forte crescita, in quest’epoca di grande mobilità. La cosa tristemente ironica è che sono anche i primi a risentire del rincaro dei canoni d’affitto. Oppure ci sono lavoratori temporanei, all’inizio della carriera, con contratti a tempo determinato, che cercano le opportunità in grandi città ma senza necessariamente avere in programma di mettere radici in un posto specifico. Anche in questo caso, si vengono a creare situazioni paradossali, come lavoratori che pur non essendo precari fingono di esserlo per accedere agli affitti temporanei. Poi ci sono i nomadi digitali, che per definizione sono mobili: magari hanno datori di lavoro in Nord-Europa, ma preferiscono vivere in Italia. C’è un fenomeno che si chiama “lifestyle migration”: migrazioni che non sono dettate da esigenze lavorative, ma dal desiderio di fare esperienze altrove. In questo senso le grandi città hanno un forte potere attrattivo: hanno aeroporti, sono piene di stimoli..».

Quanti sono, questi “abitanti temporanei”?

«Abbiamo calcolato che in una città come Roma, ogni giorno pernottano turisti pari approssimativamente al 10% della popolazione: 250mila persone, all’incirca. E abbiamo calcolato anche che il numero di quelli che chiamiamo “abitanti temporanei”, che non sono residenti, ma nemmeno turisti, è più o meno equiparabile».

Questo cambia la conformazione urbana?

«Assolutamente sì. Innanzitutto, chi è qui a medio-termine è più attratto dalla centralità, dalle aree ben collegate. Da questo punto di vista, turisti e abitanti temporanei sembrano avere le stesse preferenze. Sono giovani, amano lo spazio pubblico e fanno un uso intenso della città. In secondo luogo, sono persone che hanno una capacità di spesa abbastanza elevata. Anche i migranti temporanei sono persone qualificate, con un reddito elevato o un’elevata possibilità di produrre reddito. A volte infatti turisti e abitanti temporanei vanno in conflitto: pensiamo a Bologna, o a Venezia, dove gli studenti sono stati praticamente espulsi».

C’è pericolo di ghettizzazione dei residenti, spinti sempre più ai margini?

«Il processo si articola in due rami: polarizzazione e segregazione. Viene a mancare la cosiddetta «mixité sociale». Questo contribuisce anche ad alimentare le disuguaglianze sul mercato immobiliare, nei prezzi delle case. Il processo ha natura in parte funzionale: i luoghi centrali sono sempre più destinati al consumo, piuttosto che all’abitazione, e tutti i servizi si orientano verso le zone più ricche, piene di “city users”, come diceva Martinotti. Città sempre più utilizzate e sempre meno abitate».

Da un certo punto di vista, sembrerebbe un processo utile all’economia locale. È così, o invece si spiana la strada a distorsioni nel lungo termine?

«Il discorso sulla città è tuttora orientato verso il concetto di ‘attrattività’, che si pensano sia il primo propulsore di crescita. Molti autori si sono spinti anche oltre, iniziando a dire che non bisogna più attrarre imprese, ma persone. Che siano turisti, abitanti temporanei, studenti, creativi… pare quasi che degli abitanti di queste città non interessi più a nessuno. Perché chi viene da fuori porta soldi, investimenti. Ma questa retorica è problematica per due motivi. Il primo è che se attraiamo, come dicevamo, persone, produciamo gentrificazione, aumento delle disuguaglianze, esclusione. Chi arriva contribuisce a rendere il costo della vita ancora più alto, a discapito di chi ci abitava prima. In inglese, si dice “sorting”: non stai attraendo, ma stai sostituendo popolazione povera con popolazione ricca. Il secondo aspetto problematico è che non siamo sicuri che le persone che attraiamo siamo in grado di tenercele. Perché se il meccanismo di basa su precarietà lavorativa, abitativa, esistenziale… è difficile capitalizzare su questa forma di ricchezza, che alimenta le rendite dei proprietari di immobili più che l’economia. Al banchetto partecipa solo una quota di attori del mercato. E le economie caratterizzate da questi aspetti tendono a impoverirsi. Perché alla fine attraggono lavoro, ma poco qualificato, come quello nel turismo. E nel frattempo, agiscono in direzione dell’espulsione di questi stessi lavoratori, per cui la città diventa inaccessibile».

Come uscire da questo circolo vizioso?

«In Italia discutiamo da mesi sulla necessità di introdurre una regolamentazione degli affitti brevi. Noi diciamo che è necessario espandere il dibattito agli affitti a medio termine, strumenti che si rivoltano contro loro stessi. Non è nemmeno corretto parlare di turistificazione o crisi abitativa: abbiamo un problema che riguarda l’intero mercato degli affitti. Bisogna riflettere sul modo in cui favorire i residenti, su come tutelarli».

Esperimenti come quello di Barcellona, che ha vietato gli affitti brevi in centro, promettono di intervenire efficacemente?

«Sì, abbiamo dimostrato che aiutano a contenere il fenomeno. Ma non a risolverlo. Non scalfiscono neppure la crisi abitativa, per la verità. Alcuni sindacati per la casa di Barcellona hanno criticato la scelta dicendo proprio quello che abbiamo detto in questa intervista: il problema non sono solo gli affitti brevi, ma anche quelli temporanei. Se freniamo il fenomeno, ce lo teniamo così com’è. Se interveniamo sugli affitti brevi eliminandoli, estirpiamo solo una parte del problema. Bisogna usare una pluralità di strumenti, e avere una fortissima volontà politica. Siamo all’anno zero riguardo alla consapevolezza, sono temi che persino noi che ci lavoriamo facciamo fatica a capire. Ma quando passiamo alle soluzioni, siamo all’anno -1, nemmeno 0. E dobbiamo iniziare a sbrigarci: nei prossimi anni, se andiamo avanti così, delle città non rimarrà più nulla».

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