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Usa 2024, Biden appoggia Kamala Harris. Al via la missione (im)possibile per diventare la prima presidente donna

21 Luglio 2024 - 20:29 Serena Danna
59 anni, un passato da procuratrice e senatrice della California, ora Harris ha meno di un mese per convincere i colleghi di partito di essere la scelta migliore

Dopo l’annuncio del ritiro dalla corsa alla Casa Bianca, il presidente americano Joe Biden ha dichiarato che sosterrà la sua vice Kamala Harris nella corsa per le presidenziali come candidata del partito democratico: «Cari colleghi democratici, ho deciso di non accettare la nomina e di concentrare tutte le mie energie sui miei doveri di presidente per il resto del mio mandato – ha scritto su X -. La mia primissima decisione appena nominato dal partito nel 2020 è stata quella di scegliere Kamala Harris come mio vicepresidente. Ed è stata la migliore decisione che ho preso. Oggi voglio offrire il mio pieno sostegno e il mio appoggio affinché Kamala sia il candidato del nostro partito quest’anno. Democratici: è ora di unirsi e battere Trump. Facciamolo».

Harris ha aspettato qualche ora per rispondere al presidente: «Sono onorata dell’endorsement di Joe Biden – ha scritto su X -, mi guadagnerò la nomination». Per poi aggiungere in un altro tweet: «Farò tutto ciò che è in mio potere per unire il Partito Democratico – e unire la nostra nazione – per sconfiggere Donald Trump e l’agenda del Progetto 2025».

Le origini e il passato da procuratrice

Harris, 59 anni, madre di origine indiana e padre giamaicano, un passato da procuratrice capo e senatrice dello Stato della California, ha provato a sfidare Joe Biden alle primarie del 2020, suscitando inizialmente grande entusiasmo per la tenacia e la freschezza della sua retorica. La storia della sua famiglia è quella di un Paese che permetteva ancora ai migranti di ottenere una vita migliore. I suoi genitori si conoscono all’università di Berkeley: lei diventerà endocrinologa, lui economista. Eppure il motto con cui la giovane Shyamala cresce le sue due figlie è: «Puoi essere la prima, ma impegnati soprattutto a non essere ultima». Il pragmatismo è fin dall’inizio una caratteristica evidente di Kamala Harris. È grazie al pragmatismo che da procuratrice fa scelte efficaci ma spesso impopolari, al punto che si guadagnerà il titolo di donna «dalla parte sbagliata della storia», come scrisse in un noto editoriale il New York Times all’inizio della sua corsa presidenziale. A sinistra, infatti, in molti la accusano di aver contribuito da procuratrice all’ “incarcerazione di massa” degli afroamericani, e non le perdonano di aver protetto l’ex segretario del Tesoro Steve Mnuchin quando era a capo di OneWest durante un’inchiesta sulla banca. Da senatrice dello Stato della California – ruolo forse interrotto troppo presto – restano memorabili le sue arringhe in Aula contro i magnati della Silicon Valley e il giudice della Corte Suprema Brett Kavanaugh accusato di molestie.

La vicepresidenza

Durante le primarie del 2020 Harris accusa Biden di aver collaborato con due senatori segregazionisti e di essersi opposto da senatore al progetto di desegregation busing, per permettere agli studenti di frequentare scuole in altri quartieri. Nonostante questo, il presidente la sceglie come sua vice: la prima donna, la prima nera, la prima “matrigna”. Da quando è stata nominata, la sua figura si è mossa prevalentemente all’ombra del presidente. Da un lato, per ragioni legate al ruolo: il vicepresidente non ha alcuna competenza o potere specifico e solo in tempi recenti – con Walter Mondale, vice di Jimmy Carter – ha ottenuto un ufficio alla Casa Bianca e l’accesso alle riunioni più importanti. Dall’altro, alcune uscite poco felici (una su tutte: le risate alla conferenza stampa con il presidente polacco Duda dopo una domanda sui rifugiati ucraini) hanno amplificato la scarsa fiducia dei dem, che diffondono con grande disinvoltura aneddoti su una leader capricciosa e odiata dai suoi dipendenti. Di certo non l’ha aiutata ricevere in consegna da Joe Biden il dossier più complicato: quello sull’immigrazione al confine Stati Uniti-Messico. Durante la più grave crisi migratoria della storia recente, Harris ha avuto infatti il compito di cercare accordi con i Paesi dell’America centrale per frenare l’ondata di irregolari che arrivano in Messico nella speranza di entrare negli Stati Uniti. Una missione quasi impossibile, gestita con un certo impaccio dalla vice presidente – ancora risuonano le sue grida «Non venite! Non venite!» durante una visita in Guatemala – che ha finito con attirarle critiche da destra e sinistra. Chi – nonostante le apparenze – ha sempre visto in lei una possibile rivale è Donald Trump, che con il suo movimento Maga, ne ha fatto fin dall’inizio un bersaglio facile, dipingendola come una politica inconcludente e ridanciana. Clamorosa, in questo senso, la bufera mediatica esplosa l’anno scorso in cui un suo errore di pronuncia – population al posto di pollutionscatenò per giorni i complottisti d’America sul progetto dell’amministrazione Biden di «ridurre la popolazione».

Cosa succede ora

Certo, non è detto che l’endorsement di Biden si tramuterà in un effettiva nomination durante la convention democratica di Chicago, in programma tra poco meno di un mese. Sono ancora in tanti – tra donatori e colleghi di partito – a storcere il naso davanti al suo nome, e i sondaggi al momento la danno in sostanziale parità con Biden nel confronto con Trump. Di sicuro la sua nomina agevolerebbe una serie di processi all’interno del partito: con la candidatura di Harris di fatto i fondi per la campagna, così come l’organizzazione e lo staff resterebbero al loro posto. E la corsa di una donna nera non ancora sessantenne – se ben costruita – potrebbe rispolverare l’entusiasmo sopito dell’era Obama. Molto dipenderà anche dalla scelta del candidato vice, che secondo gli analisti più esperti per aiutare la candidatura di Harris, dovrebbe ricadere su qualche governatore moderato del Midwest.

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