Alberto Muraglia, tutta la storia del vigile che timbrava in mutande a Sanremo: «Nove anni di sofferenza»
«Ho sempre saputo di non aver fatto qualcosa di sbagliato. L’ho spiegato a tutti, dal pm ai vari giudici, fin dall’inizio. Avevo ragione, anche se questo non mi ripaga di 9 anni di sofferenza». Alberto Muraglia è il vigile in mutande che timbrava il cartellino in slip e canottiera. La sua immagine nel 2015 ha fatto il giro del mondo mentre il comune di Sanremo lo accusava di truffa. Dopo l’assoluzione con formula piena, ieri è arrivata l’ultima sentenza sul suo licenziamento. Che era illegittimo anche secondo la Cassazione, dopo la decisione della Corte d’Appello di Genova. E lui racconta a La Stampa cosa ha pensato: «Mi aspettavo questa conclusione, perché conferma quello che ho detto subito al primo giudice del lavoro. Non mi aveva creduto, e nonostante tutte le testimonianze a mio favore, aveva respinto il mio ricorso».
La storia del vigile in mutande di Genova
«a la corte d’appello di Genova ha ribaltato tutto perché c’era una logica. Era chiaro che la timbratura in mutande avvenisse o prima o dopo l’orario di lavoro, la macchinetta era davanti all’alloggio di servizio. Una volta dimostrato quello, è finito il discorso», spiega Muraglia. Il quale aggiunge che la foto che lo ritrae in mutande «penderà per sempre sulla mia testa. Ancora oggi esplodono i commenti sui social quando compare. La gente non si convince che c’è stato un errore di base della magistratura, c’è stato un giudizio basato su una singola foto. E uno scatto non poteva certo spiegare che stavo facendo il mio lavoro, le persone vedevano altro. Un furbetto del cartellino».
Ha trascorso anche 86 giorni di arresti domiciliari. «Resta solo un po’ di dispiacere per il comportamento dell’ex segretaria generale del Comune, che mi aveva dato la speranza di essere pronta ad accogliere la mia tesi, e poi mi ha licenziato. Poteva essere sufficiente anche una sospensione, in attesa del processo penale».
Le spiegazioni al Gip
Muraglia dice che «tre giorni dopo gli arresti ero dal gip a spiegare tutto. Mi aspettavo quasi le scuse, invece hanno aperto altri tre fascicoli su di me, tutti archiviati. Ho perfino rinunciato alla prescrizione, non puoi accettarla quando sai di non avere fatto niente. Ed è arrivata sia l’assoluzione “perché il fatto non sussiste” che il reintegro sul posto di lavoro». Il reintegro, spiega, non l’ha accettato perché «non volevo più lavorare per persone che non avevano creduto in me, nella mia onestà, nonostante avessi sempre portato la divisa con onore e dignità. E poi il Comune ha presentato ricorso anche contro la sentenza di reintegro».
Ora rimane la questione economica: «Mi sono stati liquidati 132 mila euro, togliendo dalla cifra iniziale di 227 mila euro quello che secondo i loro calcoli avevo guadagnato nel frattempo. Invece secondo la mia commercialista c’è una differenza di 60 mila euro. Quattro mesi fa ho chiesto al Comune come risultasse la cifra che mi hanno versato, sta ancora aspettando la risposta».
L’aggiustatutto
In questi anni infatti Muraglia si è riciclato come aggiustatutto: «Ho aperto un piccolo laboratorio, adesso va a gonfie vele. Con me c’è mia figlia Aurora, si occupa della parte amministrativa, delle etichette per citofoni, delle chiavi. Si sta laureando in informatica, deve solo discutere la tesi. C’è anche mio nipote». Ma dice che non dimenticherà i nove anni di calvario: «Sono io che non voglio dimenticare, anzi. Anche se la mia immagine è stata rovinata per sempre, e non me lo meritavo, per il resto sono contento così. È stato un percorso lungo, difficile e doloroso. Ma ne sono uscito vincente».
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