Genere non binario sui documenti, il no della Corte Costituzionale alla rettifica e le aperture: «Intervenga il Parlamento: è questione di dignità sociale»
Le persone transgender non binarie, ossia coloro che non si identificano né nel genere maschile né in quello femminile, non possono ancora richiedere la rettifica anagrafica per far riconoscere il «genere non binario» sui documenti. Dopo che lo scorso febbraio il tribunale di Bolzano ha rinviato alla Consulta la richiesta di una persona non binaria sudtirolese di ottenere il riconoscimento del genere non binario sui documenti, ora la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile la richiesta di rettifica. Tuttavia, la Corte ha sollecitato il Parlamento a intervenire sotto il profilo legislativo. «L’eventuale introduzione di un terzo genere di stato civile avrebbe un impatto generale», spiegano i giudici, e richiede «necessariamente un intervento legislativo di sistema, nei vari settori dell’ordinamento e per i numerosi istituti attualmente regolati con logica binaria». Ma non solo.
«È una questione di dignità sociale»
La Corte riconosce che «la percezione dell’individuo di non appartenere né al sesso femminile, né a quello maschile – da cui nasce l’esigenza di essere riconosciuto in una identità “altra” – genera una situazione di disagio significativa rispetto al principio personalistico», riconosciuto nell’articolo 2 della Carta costituzionale. Pertanto, «nella misura in cui può indurre disparità di trattamento o compromettere il benessere psicofisico della persona, può sollevare un tema di rispetto della dignità sociale e di tutela della salute». Da qui, la necessità che il legislatore prenda in esame il tema.
Il caso del 24enne e cosa implica la sentenza
Tutto è nato dal caso di una persona non binaria di 24 anni, a cui il tribunale di Bolzano aveva riconosciuto il diritto di vedersi indicata sui documenti come appartenente al terzo genere. Tuttavia, poiché la legge italiana sulla rettifica anagrafica obbliga a scegliere tra il genere femminile e quello maschile, il tribunale aveva rinviato la questione alla Corte costituzionale. Ora, con questa sentenza, i giudici della Consulta non escludono che in futuro possa esserci un’apertura in questo senso, ma riconoscono che tale cambiamento debba partire da una modifica del sistema legislativo, attualmente strutturato in un’ottica binaria. Basta pensare, fanno notare i giudici, a come è concepito il diritto di famiglia, del lavoro, dello sport, o alla struttura delle carceri e degli ospedali. Pertanto, riconoscere un terzo genere in questo momento produrrebbe troppe incongruenze nell’ordinamento legislativo. Se, però, il Parlamento intervenisse, il problema potrebbe essere risolto.
Via l’autorizzazione all’intervento chirurgico se il percorso di affermazione è già compiuto
Ma la sentenza della Corte costituzionale introduce un’altra novità. I giudici hanno dichiarato incostituzionale l’articolo 31 del decreto legislativo 150/2011 nella parte in cui impone alle persone trans di ottenere l’autorizzazione del tribunale per accedere all’intervento chirurgico. La Corte ha evidenziato come attualmente il percorso di affermazione di genere e la rettifica anagrafica possano essere raggiunti tramite «trattamenti ormonali e supporto psicologico-comportamentale», quindi anche senza necessità di un intervento chirurgico. Di conseguenza, la richiesta di autorizzazione del giudice per le operazioni chirurgiche di cambio sesso, che verrebbero eseguite dopo la rettifica già disposta, risulta «irragionevole».
Tradotto in termini pratici: d’ora in poi, ad esempio, le persone transgender che hanno già effettuato un percorso ormonale e psicologico possono sottoporsi a una mastectomia senza l’autorizzazione del giudice. Si è detto soddisfatto l’avvocato Alexander Schuster, che ha seguito il caso del 24enne di Bolzano fin dall’inizio: «È un ottimo risultato, in linea con le aspettative. L’eliminazione dell’autorizzazione tramite la dichiarazione di incostituzionalità rende giustizia a una legge ormai obsoleta, non più al passo con i tempi. Il Parlamento deve agire quanto prima. La Consulta ha visto ciò che qualche anno fa la Cassazione ha voluto ignorare».
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