Una canaglia geniale: l’incredibile storia di Big Poppa, l’uomo che creò e truffò i Backstreet Boys e i NSYNC
Lou Pearlman scopritore di alcuni dei più luminosi talenti del pop mondiale a cavallo tra anni 90 e 2000. Lou Pearlman truffatore da 300 milioni di dollari di bottini. Chi era davvero Lou Pearlman? Entrambi. Infatti Netflix gli ha dedicato un documentario, in Italia intitolato Dirty Pop: la truffa delle boy band, attualmente disponibile sulla più popolare delle piattaforme streaming. Big Poppa, così come amava farsi chiamare una volta spostati i propri affari da New York a Orlando, in realtà aveva una gran passione per i dirigibili, provò ad entrare nel business nel 1980 con la Airship International, ma il volo inaugurale si risolse con uno schianto. Nei seguenti dieci anni continuò ad operare nel settore dei viaggi aerei di lusso ma il sospetto è che in realtà altro non fosse che una copertura per truffe cosiddette «pump and dump»: si gonfia artificialmente il prezzo di una società per poi rivenderne le azioni creando una clamorosa plusvalenza ai danni degli investitori. La svolta musicale arriva nel 1992, a quanto pare illuminato dal clamore del successo (già in discesa ai tempi) dei New Kids on the Block. Non che lui fosse del tutto estraneo all’ambiente essendo cugino di primo grado di Art Garfunkel, ma nel pop ci vide essenzialmente un affare.
Tutto partì con un annuncio sull’Orlando Sentinel al quale risposero un Nick Carter ancora dodicenne, Howie Dorough (19 anni) e AJ McLean (14) e quello fu l’inizio della storia dei Backstreet Boys, una delle boy band di maggior successo della storia del pop mondiale. Solo un paio d’anni dopo quei ragazzi, ai quali poi si unirono Kevin Richardson e Brian Littrell, venderanno 14 milioni di copie con Quit Playing Games (With My Heart), per poi consacrarsi intorno al ’99 con il cult Millennium, per intenderci: l’album della hit I Want It That Way. Non è che gli Stati Uniti fossero stati colti immediatamente dalla wave delle boy band, infatti Nick Carter e compagni sfondarono prima in Europa, in Germania per la precisione, e solo dopo in casa propria. Stesso identico percorso degli NSYNC, che infatti sono l’altra preziosa creatura messa al mondo da Big Poppa attraverso la sua Trans Continental, progetto nato dopo l’incontro con Chris Kirkpatric, a patto che trovasse altri amici con le classiche caratteristiche da boy band per mettere in piedi un progetto in stile Backstreet Boys. Big Poppa amava dire che i Backstreet Boys erano come la Coca-Cola e qualcuno prima o poi si sarebbe inventato la Pepsi, allora decise di inventarsela direttamente lui e la sua Pepsi erano gli NSYNC. Ma saranno proprio Lance Bass, JC Chasez, Joey Fatone, Chris Kirkpatrick e Justin Timberlake a smascherare i metodi di Lou Pearlman. D’altra parte, per quanto giovani, anche a loro, dopo aver ottenuto un tumultuoso successo europeo, sembrò strano lavorare a certi livelli incassando una paghetta da 35 dollari al giorno. La cosa durò circa tre anni, poi Pearlman convocò NSYNC con annesse famiglie in un ristorante di lusso, una cena importante, quella durante la quale, finalmente, i cinque ragazzi avrebbero messo in tasca gli assegni della vita, quelli del salto di qualità, della consacrazione a musicista di successo. Ma Big Poppa fu avido, non provò nemmeno a indorare la pillola della truffa, consegnando cinque assegni da soli diecimila dollari, una miseria inaccettabile ma, soprattutto, assai sospetta. Lance Bass, per far capire la portata del tentato raggiro di Pearlman, oggi dice che anche se la cifra fosse stata dieci volte maggiore, comunque sarebbe sembrata scandalosa rispetto il successo di vendite ottenuto in Europa fino a quel momento (il successo a livello globale si manifestò qualche mese dopo). «Però forse ci avrebbe tenuto buoni per un po’» ammette, ma Big Poppa esagerò e gli NSYNC chiamarono gli avvocati, venendo a scoprire che Lou Pearlman si considerava concettualmente il sesto membro della band ma veniva pagato come il primo: il 90% dei ricavi di quel successo, sull’orlo di diventare storico, finiva nelle sue tasche. Anche lato Backstreet Boys le cose crollarono in fretta quando i ragazzi si ritrovarono in mano un assegno di soli 300mila dollari a fronte di un trionfo discografico a livello mondiale, mentre vedevano il loro manager navigare nel lusso più sfrenato. Probabilmente quei proventi servivano a creare nella musica ciò che Pearlman aveva già creato anni prima con le sue società di noleggio aereo di lusso, uno sorta di schema Ponzi della musica, per cui una truffa ai danni di una band veniva finanziata con una precedente truffa ai danni di un’altra band. Uno schema di Ponzi considerato tra i più larghi, profondi e neri della storia degli Stati Uniti che fruttò qualcosa come 300 milioni di dollari.
Quella cena con gli NSYNC infatti fece crollare il castello di carte di Lou Pearlman, che nel frattempo aveva fondato anche gli O-Town (frutto del lavoro con il talent MTV Making the Band), gli LFO, i Take 5, i Natural, i Marshall Dyllon, gli US5, le Solid HarmoniE e anche le Innosense, tra le cui fila militava anche una giovanissima Britney Spears. Progetti che non ebbero chissà quale riscontro in Europa ma che negli Stati Uniti ad oggi sono considerati oggetti di culto relativi al pop di inizio millennio. Progetti cui epilogo ha avuto, per tutti, un unico scenario: il tribunale. Il successo delle boyband poi verrà spazzato via quasi del tutto da una crisi globale della discografia, quella relativa al sanguinoso passaggio al digitale, di fatto regolarizzato solo dall’avvento di Spotify.
Niente che preoccupi Lou Pearlman, che per sfuggire alle accuse di frode e violenza sessuale (non contento, pare avesse anche il vizio di assumere atteggiamenti poco appropriati nei confronti dei propri assistiti), scappa in Indonesia, dove si fa chiamare Incognito Johnson. Stavolta il raggiro dura pochissimo, perché viene riconosciuto, segnalato e arrestato. In patria un tribunale lo giudica colpevole di riciclaggio di denaro sporco, cospirazione e false dichiarazioni e lo condanna a 25 anni di carcere. Ne sconterà soltanto otto: all’età di 62 anni, era il 19 agosto del 2016, viene colto da un ictus e muore in cella. Al momento della morte non si scatena un tam tam di commossi cordogli, ma nemmeno il contrario. Justin Timberlake, per dire, lo ricorderà in un tweet come l’uomo senza il quale lui non farebbe ciò che ama. Alla fine del documentario, al netto della storia oggettivamente straordinaria di un truffatore in piena regola, la cosa che colpisce è certamente il cinismo, purtroppo assai comune e mai tramontato nello showbiz discografico, di un uomo nel considerare la musica un business e il mondo della musica che risulta in qualche modo complice di questo approccio. Un approccio che di sicuro non è storia vecchia, incarcerata e trapassata come quella di Big Poppa, l’idea che la musica possa essere creata ed impacchettata al solo fine di essere venduta oggi è più vivida che mai. E se la truffa oggi non è a carico di chi quella musica la crea, certamente ancora oggi è a carico di chi quella musica la ascolta. Perché l’oscuro, quando si tratta di un certo lato della musica, essendo la musica elemento significativo nella vita di ognuno di noi, risulta sempre un po’ più oscuro.