Paziente morta a Torino, l’anestesista che ha rifiutato di mentire sulla trasfusione sbagliata: «Poi mi sono dovuta dimettere»
«Non sono madre, ma se avessi un figlio gli insegnerei l’onestà». E molta integrità, pagata a caro prezzo, l’ha dimostrata l’anestesista che si è rifiutata di nascondere il dato della trasfusione sbagliata che ha portato alla morte Carla Raparelli, di 71 anni. Una denuncia che l’ha portata a dimettersi dalla clinica Maria Pia Hospital. La donna, che preferisce rimanere anonima, ha raccontato la sua versione a Repubblica. Cominciando dalla sera del 9 marzo 2023.
La trasfusione sbagliata
Quella sera, racconta, «ho tentato di rianimare la paziente per oltre 45 minuti. Abbiamo fatto il possibile, l’abbiamo intubata, abbiamo provato in ogni modo. Quando ormai non c’era più nulla da fare, è entrata l’infermiera. Era bianca in volto e molto triste. È stata lei a dirmi che c’era stata una trasfusione sbagliata». «Ho capito subito che era una cosa gravissima con ripercussioni legali – prosegue -. Ho chiamato subito i responsabili di reparto e il direttore sanitario». A quel punto, è stata convocata una riunione notturna che è durata dalle 2 alle 5 del mattino.
La riunione
Nel corso di quel confronto, ricorda ancora l’anestesista, «alcuni dirigenti e medici premevano perché non volevano che uscisse fuori la storia della trasfusione. Dicevano che si dovesse nascondere, perché sarebbe stato un disastro per tutti». A quel punto lei ha risposto che «non potevo guardare la famiglia negli occhi e non dire la verità. Ho insistito: “Non posso farlo”. Mi hanno detto: “Va bene, ci parliamo noi” . Ma c’era un altro problema: ero io ad aver tentato di rianimare la paziente, ero io che dovevo compilare l’Istat, la scheda in cui si indicano le cause del decesso. Mi hanno detto: “Devi firmarlo tu”, e volevano mettessi shock settico».
La nausea
Una richiesta che l’ha turbata sin da subito: «Avevo la nausea. Stavo malissimo. Ero lì con la penna in mano e guardavo quel foglio: “Non posso farlo” ho ribadito». Il disagio era accentuato dalla percezione di solitudine: «C’era chi premeva per nascondere la trasfusione e chi stava zitto ad ascoltare senza prendere parte alla discussione». Lei, dal canto suo, ha «provato a convincerli che non si poteva nascondere una cosa del genere. Un errore può succedere, per quanto grave, si può comprendere. Ma nasconderlo no, quello è imperdonabile».
Il rifiuto
E dunque, con la penna in mano, si è rifiutata di firmare. «Il direttore mi ha detto: “Allora lo firmo io”. Ma non potevano firmare la cartella clinica al mio posto e io avevo già iniziato a scrivere, prima della riunione. Poi abbiamo discusso ancora. Ci ho pensato bene. Ero io, con la penna e quel foglio davanti. Ho pensato alla mia coscienza e alla Bibbia. E ho detto di no». Alla fine, racconta ancora, «si sono arresi. Un manager mi ha detto: se lei non è d’accordo a nascondere la cosa, dobbiamo dire la verità». Ma la decisione ha avuto delle conseguenze. «Mi è stato detto da un responsabile: “Non voglio lavorare con gente come te. Quindi domani mi dimetto”». Anche se alla fine, non l’ha fatto.
La vergogna e il silenzio
«Io quella notte sono andata a casa piangendo – ricorda ancora l’anestesista -. Provavo un gran senso di vergogna nel lavorare con persone che per me tradivano anche il senso dell’essere medici. Due giorni dopo, intorno a me c’era solo silenzio. Immaginavo mi mandassero via. Due settimane dopo mi hanno convocato in direzione. Mi hanno detto che ero un’incapace e che mi trasferivano di reparto. Ho risposto che non ero nata ieri e che sapevo bene che era per via di quello che era successo, della trasfusione. Mi hanno detto di no, che non era per quello».
La ricerca di giustizia
Il momento era delicato: «Mi dovevo sposare dopo un mese e mezzo. Perdere il lavoro in quel momento era terribile. Ma sentivo che non potevo rimanere lì. Ho scelto di andarmene, anche se la responsabile dell’anestesia non voleva. Nel giro di poco tempo per fortuna, ho trovato un posto a Torino e ora sono serena». Quello che è successo, però, a suo avviso rimane «gravissimo. Io non volevo far finire nessuno nei guai, e non ho denunciato io. Ho pensato: se qualcuno mi chiederà cosa è successo, racconterò la verità. E così ho fatto, quando mi hanno chiamato i carabinieri. Mi guardo allo specchio e non ho niente da nascondere. Quando ho scelto medicina, ho scelto di aiutare gli altri. Non ho fatto nulla di eccezionale, ma è molto triste. E spero che venga fatta giustizia».
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