L’ex campionessa di nuoto cieca Greta Carrara: «Le Paralimpiadi sono competitive come le altre, ma noi atleti ancora considerati di serie B» – L’intervista

Doppia medaglia di bronzo ai Mondiali in Brasile e sul podio agli Europei 2009, la 32enne mette in luce la disparità tra Giochi paralimpici e olimpici

«Io non parteciperò alle Paralimpiadi di Parigi 2024. Gareggerò». Questo è lo slogan che si fa strada nel cuore della campagna lanciata dal Comitato paralimpico internazionale (Ipc) che sfida il modo in cui le Paralimpiadi – che si terranno dal 28 agosto all’8 settembre – vengono percepite e presentate al grande pubblico. Nonostante l’incredibile dedizione e lo spirito competitivo degli atleti con disabilità, le Paralimpiadi spesso non sono considerate alla stregua delle Olimpiadi. Questa disparità è un riflesso dell’abilismo ancora profondamente radicato nella nostra società e dei pregiudizi persistenti riguardo alla disabilità nello sport. «Molti pensano che gli atleti paralimpici siano meno atleti rispetto ai loro omologhi olimpici, relegandoli a una sorta di serie B sportiva», commenta a Open Greta Carrara. Ex campionessa paralimpica di nuoto, Carrara ha conquistato due medaglie di bronzo ai Mondiali in Brasile nel 2007 (100 Dorso e 200 Misti) e un’altra agli europei 2009 a Reykyavik (Islanda). Ha 32 anni, cieca dalla nascita, ha iniziato a nuotare da piccola per superare la sua paura dell’acqua, spinta dai suoi genitori. Oggi, oltre a essere stata una sportiva di successo, è anche una copywriter e un’esperta di comunicazione. Ha scritto un libro e ne ha un secondo in lavorazione.


«Io non parteciperò alle Paralimpiadi. Gareggerò», è lo slogan della campagna lanciata dall’Ipc, sostenuta da molti atleti di successo con disabilità. Come giudichi questa iniziativa in preparazione dei Giochi di Parigi?


«Penso sia una campagna doverosa. Non dimenticherò mai una frase scritta su alcuni cartelloni durante i campionati italiani di nuoto che ci aveva fatto arrabbiare tutti. Diceva: “Essere qui è già un ottimo punto d’arrivo”. Ma quello che pensavamo noi era: “Siamo arrivati qui perché vogliamo andare oltre”. Frasi del genere, per quanto possano sembrare innocue, nel contesto della disabilità assumono un significato diverso, quasi paternalistico. Dire “parteciperemo alle Paralimpiadi” rischia di togliere importanza all’aspetto agonistico della gara come se si trattasse, di fatto, di una competizione di secondo livello».

Ritieni che le Paralimpiadi ricevano meno attenzione mediatica rispetto alle Olimpiadi?

«Assolutamente sì, le differenze sono immense. Dipende da come percepiamo lo sport e la disabilità. La società tende a vedere lo sport solo in termini di chi corre più veloce o di chi ha la prestazione migliore. Ma lo sport non è solo questo, ci sono tante altre sfaccettature che possono renderlo spettacolare. Eppure, la copertura mediatica è scarsa perché il pubblico non è consapevole di ciò che si perde. Penso ad esempio alle competizioni di bocce per persone in sedia a rotelle che mettono in campo una complessità strategica che la gente nemmeno immagina, purtroppo».

Le aspettative e i pregiudizi legati alla disabilità influenzano negativamente la percezione che si ha delle prestazioni degli atleti paralimpici?

«Sì, e lo noto parlando con persone che non sono mai state esposte a questo tipo di competizioni. Prendiamo come esempio i miei genitori. Prima che iniziassi a nuotare, non avevamo mai guardato gare paralimpiche. Ma quando hanno cominciato a seguire le mie gare a livello agonistico, sono rimasti sorpresi da quanto fossero coinvolgenti e competitive. Lo sport paralimpico è spettacolare proprio perché mostra abilità incredibili, come accade per le Olimpiadi. C’è bisogno di più sensibilizzazione in quest’ottica».

Qual è il pregiudizio più duro da rompere nei confronti degli atleti con disabilità?

«Il pregiudizio più diffuso è che gli atleti paralimpici non siano veri atleti. E che le nostre vittorie siano merito solo di una competizione separata e meno valida. Questa percezione riduce la nostra esperienza a una categoria a sé, piuttosto che riconoscerci come atleti a tutti gli effetti. Ma la realtà è che noi atleti paralimpici ci alleniamo con la stessa intensità e dedizione dei colleghi olimpici, affrontando sfide e ostacoli significativi per raggiungere prestazioni di alto livello. Non solo competiamo su scala globale, ma miriamo anche a risultati eccezionali, dimostrando impegno e capacità che meritano il medesimo rispetto e riconoscimento degli atleti olimpici».

Hai mai subito pregiudizi o discriminazioni nel tuo percorso sportivo?

«Fortunatamente, no. Mi sono sempre allenata e ho gareggiato accanto ad atleti sia normodotati che con disabilità, e in queste esperienze non mi hanno mai fatto percepire una sensazione di inferiorità tra noi. Gli atleti, indipendentemente dalle loro abilità, tendono a comprendere profondamente e a rispettare la fatica e il duro lavoro necessari per raggiungere ogni prestazione. Tuttavia, credo che sia spesso il pubblico, piuttosto che gli atleti stessi, a non comprendere appieno questi aspetti, influenzato da pregiudizi e mancanza di contesto».

In che modo ritieni che la società possa lavorare per superare i pregiudizi legati allo sport paralimpico?

«È una sfida complessa e richiede un cambiamento profondo nell’immaginario collettivo. Credo che la chiave risieda nel coraggio dei media, che devono avere la determinazione di trattare lo sport paralimpico con la stessa attenzione e prestigio riservati a quello olimpico. Solo attraverso una maggiore visibilità si può realmente cambiare la percezione comune e dimostrare che gli atleti paralimpici sono altrettanto validi e meritevoli di riconoscimento come i colleghi olimpici. La visibilità è cruciale per superare stereotipi e pregiudizi».

Nonostante le vittorie e i risultati raggiunti hai scelto di lasciare il nuoto agonistico e dedicarti ad altro. Come mai?

«Sono stanca dell’agonismo. Nuotare a livello competitivo richiede un impegno enorme: due ore di allenamento al giorno, gare nei fine settimana, allenamenti doppi d’estate. A un certo punto ho deciso di dedicarmi ad altro, ma rimango grata per tutto ciò che lo sport mi ha insegnato».

Ovvero?

«La costanza, la disciplina, il lavoro di squadra. Ma soprattutto accettare la sconfitta e andare avanti, godendomi il percorso, non solo la gara».

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